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‘Sergio Romano’: l’arte di restare nei silenzi

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La sua voce arriva dal telefono come se attraversasse una stanza piena di polvere luminosa. Non c’è fretta: ogni parola semplicemente si posa, con la calma di chi non ha più bisogno di spiegarsi troppo. È una voce che sembra sapere già le cose prima ancora di dirle. Sergio Romano è così: un attore che non ti travolge, ti accompagna. Lo riconosci in certi gesti minimi, nello sguardo che resta a metà, in quel modo discreto di attraversare le storie senza mai farne un possesso. Parlare con lui è un esercizio di ascolto. C’è un ritmo lento, quasi musicale, come quando le parole non cercano di convincerti, ma solo di restare. Non racconta solo ruoli e set, ma ha la fragilità di chi si lascia abitare dai personaggi e, al tempo stesso, sa tornare a casa senza portarseli addosso come cicatrici.

C’è qualcosa di profondamente umano in quest’uomo che ha visto festival e campagne, red carpet e silenzi di provincia. È come se custodisse due vite: una fatta di luci brevi e applausi, l’altra di mattini qualsiasi, con la polvere, i libri, un caffè che fuma sul tavolo. Un percorso tra cinema, teatro e fiction. Ha costruito la sua carriera scegliendo ruoli che restituiscono autenticità e misura. Sullo schermo porta personaggi che sembrano reali, abitati da fragilità e sfumature più che da gesti plateali. Da Romulus a Don Matteo, fino al Festival di Cannes con Le città di pianura di Francesco Sossai, dove conferma la sua versatilità e la capacità di muoversi tra il cinema d’autore e quello più popolare, come lui stesso racconta in questa intervista.

Come ha iniziato a fare teatro?

Qualcuno sostiene che io abbia sempre voluto fare l’attore. Non so se sia realmente così. È nato tutto da una profonda delusione esistenziale. Mi ero buttato nell’attività politica da giovanissimo, a scuola, quindi stiamo parlando della metà degli anni ’80, e il vedere i miei compagni quasi anestetizzati mi provocò una grossa delusione, perché avevo grandissime aspettative. Così mi buttai nel teatro pensando che fosse il luogo in cui le persone facessero le cose insieme. Poi, con il passare del tempo mi sono reso conto che, per fare le cose insieme, gli esseri umani devono avere un più alto ideale da condividere. E così ho iniziato a fare teatro. Mi sono diplomato con Heiner Müller, uno dei più grandi drammaturghi del novecento, e ho avuto la fortuna di incontrare dei personaggi pazzeschi: Tadeusz Kantor, che lavorava lì mentre seguivo la scuola; ho incontrato Massimo Castri con cui ho lavorato negli anni; Giancarlo Cobelli e Luca Ronconi. Ho fatto Amleto con Benno Besson che è stato uno dei più grandi drammaturghi e registi al mondo e che ha fondato il Berliner Konbrecht. Ho incontrato Jacques Lassalle, che è stato direttore della Comédie Française, e ho lavorato con Alvis Hermanis. Persone dedite all’arte e con un senso così profondamente legato all’umanità da riversarsi necessariamente nelle relazioni con gli altri. Il teatro è quella dimensione in cui, all’improvviso, qualcosa accade: un luogo in cui tante persone si guardano e, insieme, guardano qualcosa di straordinario accadere in quell’istante.

Quali insegnamenti si porta sul set?

Da quando ho cominciato a prendere più seriamente il desiderio di lavorare nel mondo del cinema, e quindi da quando mi sono trasferito a Roma, mi sono rivolto a diversi insegnanti proprio per approfondire le tecniche del metodo. Ho avuto il piacere di incontrare Ivana Chubbuck e di studiare ciò che lei propone come atteggiamento e come stimolo per riflettere sulle scene. Devo dire che ho ottenuto risultati straordinari: per questo cerco di lavorare con questa tecnica, che mi aiuta ad aprirmi e a trovare i giusti agganci creativi. Per me è un ottimo stimolo, e trovo interessante il fatto che alla base del lavoro di Ivana ci sia un punto che condivido profondamente: l’identificazione delle azioni. Non puoi recitare le emozioni scimmiottando qualcosa. Quello che cerco di fare durante il lavoro è capire quale sia il bisogno primordiale che, in quel momento, si manifesta in una determinata circostanza e quale sia l’obiettivo del personaggio.

Nel film Le città di pianura lei interpreta Carlo Bianchi, un uomo che gira per la provincia veneta alla ricerca di qualcosa che non sa definire. Quanto c’è di lei in questo personaggio?

Mi è sembrato di riconoscere in questo film una mia parte bambina, che non manifesto così facilmente. È la parte più dolce, semplice, infantile e amorevole che custodisco dentro di me. E devo dire che, quando la vivo, sono molto felice. È una parte vulnerabile che faccio fatica a esporre, ma sto cercando di darle spazio, di lasciarla emergere e di non vergognarmene.

Cosa l’ha attratta del progetto?

La scrittura. Già dalle prime pagine mi sono reso conto della bellezza del progetto. Sono rimasto affascinato da una scrittura sottilmente buffa, ironica ma, allo stesso tempo, popolare. Trovo che oggi ci sia troppa roba “usa e getta”, e quella bulimia del mercato non è indolore. Invece credo che in quel film ci sia qualcosa di veramente particolare. Francesco Sossai mi aveva proposto la cosa più di un anno prima che iniziassimo a girare: avevamo già creato un forte legame di amicizia e, dopo le riprese, posso dire di aver trovato un uomo con una straordinaria capacità di tenere il set, con una calma e una dolcezza che mi hanno lasciato a bocca aperta. È incredibile anche il suo modo di dare indicazioni agli attori, tanto che non ho avuto alcuna difficoltà ad abbandonarmi a lui. Anche perché era esattamente ciò che chiedeva. Sono davvero grato di aver incontrato una persona come Francesco: fa un grande cinema, autentico.

Lei ha lavorato sia nel cinema d’autore che anche nelle fiction televisive. Cosa cambia nel passare da un set all’altro?

Sono set differenti. Ho partecipato a diverse fiction: da Don Matteo a Squadra Antimafia, passando per Che Dio ci aiuti. Posso dirti che cambia la scrittura, la densità del lavoro, l’impegno, la frenesia del set.

C’è un personaggio che le è rimasto dentro, a cui è più affezionato?

Sicuramente Amulius in Romulus. È stata la mia prima vera sfida importante, il ruolo che mi ha dato davvero l’appiglio per buttarmi con più passione nel cinema. Ricordo che ho studiato come un matto: recitavamo in una lingua protolatina, una scelta fatta dal produttore Matteo Rovere che condivido fino in fondo, perché ha dato autenticità. Devo dire che mi sono piacevolmente stupito quando ho visto il risultato del lavoro: quasi non ci credevo. Andare in scena è sempre stata per me una cosa spaventosa. Mi è capitato, in certe situazioni, di sentirmi profondamente a disagio. Ci sono stati momenti, soprattutto nei primi spettacoli, in cui mi dicevo: o faccio un grande lavoro oppure smetto e cambio mestiere.

Da attore si sente più vicino ai grandi personaggi teatrali oppure a quelli minimi quotidiani che sono quasi invisibili?

Non vorrei mentire. Una cosa che sto provando a fare è raccontare i personaggi nascosti, meno roboanti, meno presenti. Mi piacciono molto anche perché la macchina da presa li riprende meravigliosamente. Posso dire che è un lavoro difficilissimo, non scontato, ma molto appassionante.

Quando non recita cosa fa?

Sto immerso nella natura. Da qualche anno vivo in campagna con la mia compagna e i miei gatti. Sono buddista: seguo una scuola da tanti anni ed è una pratica a cui mi dedico con piacere. Seguo un maestro e mi sto convincendo sempre di più che quello che insegna lo posso fare mio profondamente. Inoltre, cerco di sostenere una campagna che si chiama Senzatomica, per l’abolizione delle armi nucleari.

Guardando al futuro, dopo Le città di pianura quali sono i suoi prossimi progetti?

Sto girando una serie per la TV con la regia di Alessandro Roia, che mi impegnerà il prossimo autunno; poi ci sono due progetti teatrali. Uno scritto da Roberto Serpi, con cui mi conosco da tanti anni, che ha realizzato un testo che trovo bellissimo: un gioiello asciutto, ironico e terribile. Racconta di tre uomini che rimangono senza lavoro e che faranno di tutto per riaverlo, in una dimensione che va oltre il reale e che spesso diventa comica. E poi, sempre a teatro, avrò il prossimo anno una bellissima collaborazione con Francesco Scianna. Devo dire che mi ha davvero conquistato: ho trovato un uomo con una passione sincera e quindi mi butterò in questa avventura.

C’è una storia che le piacerebbe raccontare?

Sì. Sono stato rapito da un testo di Pietro Ghizzardi, Mi richordo anchora, una raccolta di suoi ricordi. Era un poeta naïf del ’900, più o meno coetaneo di Antonio Ligabue, e la cosa affascinante di questo libro è che lui era in realtà analfabeta: scriveva così come sentiva. Ne nasce una scrittura stranissima, ma carica di grande umanità, che racconta un mondo che non esiste più o che sta scomparendo. Questo mi intriga molto. Sto cercando di lavorarci per arrivare a scriverne un testo: inseguo quel famoso legame di cui ti parlavo, e devo dire che c’è una storia che ho da sempre nel cuore.

Quale storia?

La storia della mia famiglia, di mio nonno in particolare. Da bambino ho vissuto molto questi racconti. I miei nonni erano comunisti della prima ora, quindi il rapporto con il fascismo non fu affatto tranquillo. Mio nonno morì il 29 aprile del 1945, ucciso durante uno scontro a fuoco nei giorni della Liberazione a Brescia. Tieni conto che Brescia era vicina a Salò, quindi piena di tedeschi. Sono sempre state storie mitiche per me: in piazza della Loggia, a Brescia, c’è una lapide che ricorda mio nonno, che io da bambino guardavo come un pezzo di pietra, chiedendomi sempre chi fosse davvero. Crescendo ho cercato di andare oltre il mito: è bello, ma a un certo punto vuoi vedere la verità, vuoi conoscere le storie degli uomini. Questa è una cosa che mi accompagna da sempre, ma non sono mai riuscito a scriverne. Con questo stimolo, però, sto cominciando a intravedere analogie interessanti per inventare un racconto. Anche perché qui entra in gioco anche la pittura: esiste infatti un museo dedicato a Ghizzardi, che visse nella zona della Bassa Mantovana, al confine con l’Emilia. Nel paese in cui è cresciuto — il cui nome ora non ricordo — c’è un museo con tutte le sue opere. È una cosa che mi affascina molto: vediamo se riuscirò a trarne qualcosa.

Se dovesse dare un consiglio a un giovane che si sta affacciando al mondo della recitazione, del cinema, che consiglio darebbe?

È una domanda difficile. Conosco poco il mondo dei giovani d’oggi. Sicuramente proverei a chiedergli cosa vede, cosa desidera. Io mi sono avvicinato al teatro per un’esigenza esistenziale e per passione. Ricordo che andavo a vedere opere in cui c’erano arte, pensiero, cultura. Quindi, rispondendo alla tua domanda, cercherei di trasmettergli le mie emozioni e di condividere con lui le sue sensazioni. Ma prima dovrei capire un po’ di più del loro mondo.

E invece, al ragazzino che vedeva il teatro quando era piccolo, cosa direbbe oggi, ripensando a tutto il percorso che ha fatto?

Mi verrebbe da dirgli: “Bravo. Sei stato proprio bravo”. Credo che questa sia una cosa di cui tutti abbiamo sempre bisogno. Mi hai fatto venire in mente un’immagine, un ricordo lontano: ero su una galleria del Ponchielli di Cremona, uno dei teatri più belli d’Italia, e guardavo Glauco Mauri e Roberto Sturno mettere in scena Le Baccanti di Euripide. Ho questa immagine di me che, dall’alto, osservo quelle luci tragiche provenire da dietro: sembravano ombre lunghe e proiettate. Ricordo la sospensione, il fascino, il mistero. Ero appoggiato, mi sporgevo e guardavo quella cosa misteriosa, affascinante, toccante. Ecco, oggi a quel ragazzino direi che quella fiamma mi anima ancora: ce l’ho dentro e continua a emozionarmi.

Se questa intervista ti è piaciuta leggi anche l’intervista a Maurizio Lombardi.

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