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‘Perishable Idol’: quando il passato torna e fa male

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Ci sono silenzi che pesano e assenze che urlano. Non è il silenzio dei luoghi dimenticati, ma quello di una storia che si rifiuta di farsi raccontare. Con il suo cortoo documentario Perishable Idol, il regista Majid Al-Remaihi ci sbatte in faccia proprio questo: la dolorosa e intima risonanza di un’isola che è stata tutto e ora non è più niente. Failaka, al largo delle coste del Kuwait, non è solo una mappa geografica. Al contrario, è una cicatrice, un fantasma, il palcoscenico di un esodo forzato dopo la Guerra del Golfo. Questo evento ha prosciugato l’anima del luogo. Il film, che verrà presentato al Perso Film Festival, è un pugno nello stomaco e una riflessione necessaria, un viaggio in un territorio del lutto e della memoria collettiva.

L’archeologia di un cuore spezzato

Il regista ci introduce in un paesaggio spettrale attraverso gli occhi dell’archeologo Hassan Al-Failakawy. Il suo ritorno non è un’operazione di nostalgia, ma un’autopsia. Hassan non cerca un Eden perduto; piuttosto, fa i conti con un cadavere. Le macerie, le case sventrate e le iscrizioni greche rendono ogni inquadratura un’epigrafe. Al-Remaihi non ha bisogno di dialoghi superflui; la sua camera si muove con la precisione di uno scalpello, estraendo dal silenzio un dolore più eloquente di qualsiasi parola. Dunque, le rovine di Failaka non sono solo ruderi, ma testimoni muti di una vita brutalmente interrotta, un patrimonio storico che si sgretola sotto il peso del tempo e dell’oblio. L’isola stessa diventa un corpo da esaminare, con le sue ferite esposte. È un campo di battaglia dove la storia incontra il dolore individuale. Di conseguenza, un’intera civiltà può svanire senza quasi lasciare traccia, lasciando solo il fantasma di ciò che era.

Il significato di un titolo: l’idolo e la sua caducità

Il titolo stesso, Perishable Idol, non potrebbe essere più azzeccato. L’idolo, in questo caso, è la memoria stessa, la storia e l’identità di un popolo. La sua caducità è il punto centrale del film. Il documentario si interroga con una semplicità disarmante: cosa resta di un luogo quando i suoi abitanti sono costretti ad andarsene? I ricordi si sbriciolano come la calce delle pareti? Le radici si spezzano come i vetri delle finestre? Al-Remaihi risponde con un realismo brutale, ma non privo di un’amara e quasi poetica bellezza. Mostra che ciò che è perituro non è mai davvero perduto, anzi, si trasforma in qualcosa di diverso: un’ombra persistente che abita ancora il paesaggio. Pertanto, l’opera suggerisce che la storia non è una linea retta, ma un ciclo di distruzione e rinascita, dove i fantasmi del passato continuano a riverberare nel presente. In sintesi, la bellezza di Failaka, ora desolata, risiede proprio in questa sua fragilità, nella sua capacità di raccontare una storia di perdita che è, allo stesso tempo, un atto di conservazione.

Un cinema necessario per un’epica universale

In soli 18 minuti, Perishable Idol condensa un’epica di perdita, memoria e identità che molti lungometraggi non riescono nemmeno a sfiorare. Il merito più grande del film è quello di elevare una storia locale a riflessione universale. Le rovine di Failaka, in questo senso, diventano le rovine di ogni luogo che ha subito la violenza della guerra. La figura di Hassan, l’archeologo che scava tra le macerie della sua stessa infanzia, diventa un simbolo di tutti coloro che cercano di riannodare il filo spezzato del proprio passato. È il cinema che ci piace: quello che non ha paura di affrontare le ombre, di dare voce al silenzio e di mostrare che, a volte, la verità più profonda si trova proprio tra le macerie.

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