La regista indaga da sempre sul femminile e questa volta sceglie di raccontare la storia di Bianca, una dodicenne che viene scelta per interpretare l’angelo nella festa del paese, simbolo di purezza, bontà e candore. Qualche giorno prima del grande “salto” però, Bianca incontra Ginevra. Da quel momento vede le sue certezze crollare e si risvegliano in lei sensazioni che la fanno sentire sporca, impura e non degna di rappresentare l’angelo.
Tra sacro e profano
La narrazione si apre con una scena idilliaca, a cielo aperto: delle bambine giocano, si divertono, raccolgono fiori. Al centro della scena c’è Bianca. È giovane, innocente e curiosa. La vediamo correre e distendersi su un prato, nascosta agli occhi degli altri, accanto a Ginevra, una sua compagna.
Le due giovani ragazze si osservano, si sfiorano e, ad un tratto, l’inquadratura si posa sul vestito candido di Bianca: è macchiato.
La macchia, lo sporco sull’abito chiaro, è il primo indice di trasformazione. È il primo passo verso la pubertà e il desiderio, che viene percepito però dalla protagonista come un qualcosa di peccaminoso e incredibilmente profano. Lo sporco sul bianco non viene via e Bianca inizia a cambiare, a non sentirsi più “santa” e non meritevole di spiccare il volo.
Infatti, c’è ancora una sorta di tabù che ruota attorno al risveglio della pubertà femminile e alle sensazioni che provoca sulle ragazze stesse. Viene spesso insegnato a controllare le proprie pulsioni sessuali, la propria curiosità, e la regista di Sante ne è pienamente consapevole.
Per questo sceglie di mostrare il conflitto interiore di una bambina che sta per diventare ragazza, vittima di un sentimento di sensi di colpa imposto dalla società, e lo fa anche attraverso un contesto clericale, agiografico, nel quale l’elemento del controllo costante è fondamentale.
In Sante, infatti, vediamo che tutto deve essere in ordine, al giusto posto, perfetto. Tutto è misurabile e controllabile, peso e sentimenti compresi.
Quando salti, tieni gli occhi aperti
Attraverso la metafora dell’angelo che deve spiccare il volo, la regista mostra quanto sia difficile e spaventoso lanciarsi verso l’ignoto, verso una nuova sé, e lasciarsi alle spalle l’innocenza e la fanciullezza.
Bianca ha paura di fare il salto, non si sente all’altezza del ruolo, ma le viene spesso ripetuto che, se lei è veramente pura non cadrà. I sensi di colpa della giovane però non vanno via e qui la regista inserisce un’altra metafora: le piume delle sue ali d’angelo cadono a terra, una dopo l’altra.
Infine, emblematica è un’altra scena in cui vediamo la protagonista, ormai adorna di ali, fiori e abito bianco e azzurro, camminare spaventata e rassegnata in un corridoio, verso l’uscita.
Le luci sono rosse, rimandano al peccato, alla macchia sul vestito e alla sua insicurezza. La folla che l’attende la tocca, le da fiori e la adora, quasi fosse veramente un angelo sceso in terra.
Una sola frase, che racchiude alla perfezione ciò che l’attende, la rassicura:
“Quando salti, tieni gli occhi aperti. È la parte più bella.”
Dopotutto, solo dopo che ci si lascia andare e non si presta più attenzione a ciò che la società impone, si è veramente liberi.
E, come ha affermato la stessa autrice in un commento:
“La storia ha scelto i suoi santi e i suoi martiri, ma noi abbiamo il potere di scegliere da che parte stare”.