Una storia vera di conflitti, tensioni, ripicche, rancori coltivati, e poco nascosti. Uno spaccato di realtà, tra le crepe di una famiglia e le ombre più o meno celate dietro le mura domestiche. Una storia, che abbraccia le forme di una tragedia greca e, insieme, quelle di una farsa, capace di unire dramma e grottesco, coralità e solitudine. In un quieto vivere, come il titolo stesso del film, Il quieto vivere, diretto da Gianluca Matarrese e scritto insieme a Nico Morabito, solo detto.
È un film, quello di Matarrese,co prodotto da Faber Produzioni e Stella Entertainment con Rai Cinema/Elefant Films, e presentato fuori concorso, con il suo ritorno per la quarta volta al Festival di Venezia, alle Giornate degli Autori, che mostra, in un dramma domestico, la sua stessa famiglia. Sono le cugine Maria Luisa Magno e Imma Capalbo, cognate tra loro), sua madre Carmela Magno, le zie Concetta e Filomena, i cugini Sergio Turano e Giorgio Pucci, e tutti i parenti del Cozzo, piccola punta di un colle nella campagna calabrese, a comparire sullo schermo, a raccontare i loro stessi conflitti, fragilità e solitudini. E a dare vita a un’opera che è cinema e, insieme, realtà.
Il palcoscenico di una tragedia
Si attendono, si vedono e si scontrano. L’una, più propensa all’ascolto e alla risoluzione dei problemi, già incline, appunto, al quieto vivere, nonostante i “dispetti” e le malelingue. L’altra, invece, ferma delle sue convinzioni e decisa a portare avanti la faida, in parte costruita e architettata da lei stessa. E si ritrovano, circondate dalle zie e dalla famiglia, come un coro che tenta, invano, di riportare la pace, in uno spazio che riporta all’orchestra di un teatro greco.
È un contesto in cui “il rancore è quotidiano e il conflitto è sacro”, in cui ogni pranzo, ogni cena, ogni occasione di ritrovo sociale e familiare, diviene un’occasione per mettere in scena la propria arringa, le proprie motivazioni e la propria performance drammatica. L’accusa di aver rubato dei soldi alla madre, di aver rovinato la macchina, chiuso il contatore dell’acqua comune o di tirare le briciole sul terrazzo altrui, di avere tresche con le forze dell’ordine, sono solo alcune delle accuse, e delle scuse, che animano e dominano i pranzi della famiglia Matarrese. Una lista di critiche e imputazioni, specialmente quella gridata da Luisa, che si ripete e reitera, ossessivamente e a tratti delirante, tra denunce e insulti, nel tentativo di convincere, sé stessa come gli altri, della perfidia della cognata.
Il quieto vivere tra ossessione e solitudine
Un’ossessione quotidiana, un perpetuo conflitto, con il mondo e con l’altro, e un desiderio, implicito nelle imputazioni gridate e nei pianti silenziosi, di essere ascoltata, considerata e creduta. È quella di Luisa per Imma, da parte sua più mite, e all’apparenza vittima della guerra imbastita e combattuta dalla cognata: un pensiero assillante che ritorna, come un copione imparato a memoria e utilizzato, recitato, in ogni tipo di palcoscenico, dalle tavole imbastite all’ufficio della polizia fino alle chat Whatsapp, che le diano la possibilità di dare manforte alle sue convinzioni, a tratti assecondato, e a tratti osteggiato, e contestato, dai familiari, pubblico e insieme tribunale di questa lotta.
Un contesto familiare, a volte grottesco e farsato, come nelle scene in cui i cugini, dai pranzi in cui esortano Luisa a denunciare, si trasformano, da marescialli, in forze dell’ordine che, increduli, ascoltano le sue teorie bizzarre e strampalate. E un contesto in cui, se la madre prende le parti di Imma, forse causa e conseguenza della stessa rabbia di Luisa, c’è sempre, come in ogni famiglia, qualcuno che sconta e paga, con l’infelicità di chi desidera, soltanto, sbarazzarsi dei suoi nemici. Qualcuno, appunto, come Luisa, destinata, come annunciato dalle zie, più che sicurezza affettiva coro destinato, come nelle tragedie greche, ad annunciare la fine di un personaggio, a una morte, se non fisica, a una dell’anima, fatta di solitudine e risentimento.
La realtà della vita tra teatro e cinema
Gianluca Matarrese propone, ne Il quieto vivere, un ritratto intimo, crudo, a tratti doloroso, di una realtà, di una famiglia, la sua, come quella di molte altre. E lo fa attraverso un linguaggio ibrido, che unisce, in sé, documentario, teatro e vita, trasformando la realtà, restituita anche dalla capacità di attori non professionisti, in materia cinematografica. Il quieto vivere sprofonda e affonda, con ironia e intensità, nel privato, nelle sofferenze, e nello sconveniente di una famiglia, portando lo spettatore, attraverso lo sguardo onirico della macchina da presa, come un voyeur nascosto dietro le luci soffuse delle stanze, vuote o piene che siano, tra verità sospese, tra cinema e realtà.