Prime Video Film

‘La figlia del bosco’: un viaggio nella foresta più vuota

Published

on

Cosa accadrebbe se, dopo una fallimentare battuta di caccia, un uomo si rendesse conto che la foresta nella quale si è perso, è in realtà un misterioso labirinto dal quale è impossibile scappare? Cosa accadrebbe se questo bosco fosse sorvegliato da un’entità maligna che tormenta chiunque osi disturbare la sua quiete? E che cosa accadrebbe se l’unico luogo “sicuro” fosse una misteriosa casa stregata popolata solo da bambole?
Nulla. Assolutamente nulla.
La figlia del bosco, lungometraggio d’esordio di Mattia Riccio, disponibile su Prime Video, parte da quelli che sarebbero anche buoni presupposti, ma in men che non si dica sfocia in un assoluto mare di piattezza e inconsistenza.

Seppur molto classica nella sua impostazione, la storia di Riccio avrebbe potuto almeno tentare di dire la sua, soprattutto considerando quanto poco frequentato sia il folk horror nel panorama indipendente italiano. Eppure questa pellicola riesce in un’impresa peculiare: non arrivare nemmeno al podio, in un una competizione priva di partecipanti.
E duole davvero dirlo, perché La figlia del bosco poteva essere una piccola gemma di genere, ma fallisce sotto ogni singolo aspetto.

Una storia vista e rivista

Le disavventure del protagonista Bruno, interpretato da un monolitico Davide Lo Coco, forse alla sua peggior prova, già in partenza peccano di originalità. Quanti altri film che parlano di foreste maledette e mostri si sono già visti?
Tanti, forse troppi. Ma non sarebbe nemmeno un problema, se la pellicola di Riccio fosse stata realizzata con un minimo di mestiere. Il genere horror vive di codici ricorrenti: è nel modo in cui li si aggiorna, reinventa o rielabora che si gioca la partita.

Davide Lo Coco

La figlia del bosco non fa nessuna di queste cose. Non propone nessuna sfumatura, nessuna variazione, nessun accento personale. Tutto è così fastidiosamente piatto, ripetitivo, privo di ritmo.
Nell’arco degli – eterni – ottanta minuti di film, non succede pressoché nulla: vediamo il povero Bruno camminare nel bosco, pronunciare tra sé e sé frasi che definire deliranti sarebbe riduttivo, e ogni tanto imprecare contro il vuoto, senza un motivo apparente. Al punto da diventare involontariamente spassoso. 

La situazione poi precipita quando compaiono in scena le altre due protagoniste, due improbabili capi scout: i dialoghi sono privi di ogni logica, completamente didascalici e ridicolmente forzati.  Sembra che ognuno degli attori reciti un costante monologo, poi tagliuzzato grossolanamente in fase di montaggio e riassemblato, nel tentativo di creare delle conversazioni. Così facendo, il mordente, purtroppo, soccombe inesorabile.

Un’insopportabile mancanza

In un film horror, l’assenza di tensione è letale.
E La figlia del bosco non fa paura. Mai. Non c’è un solo momento di vero disagio, di ansia, di inquietudine. Sembra quasi che Riccio non voglia nemmeno provarci. E allora che senso ha realizzare un horror che non inquieta e non coinvolge?
Ogni colpo di scena è telefonato, ogni svolta prevedibile, ogni elemento disturbante è più che altro decorativo. Il finale, poi, è un catalogo di scelte ovvie e soluzioni pigre.

É lecito allora porsi una domanda: ma perché far durare così tanto una storia che ha così poco da raccontare? Non sarebbe stato meglio accorciare il minutaggio in modo da permettere alla tensione di non dissiparsi? La figlia del bosco racconta in quasi un’ora e mezza ciò che si sarebbe potuto narrare abbondantemente in venti minuti. E allora come può una pellicola che ha un’ora di troppo essere salvata? Semplice: non può.

È un disastro totale?

Ma ci sarà qualcosa che si salva, almeno sul piano tecnico? No.
Se già la storia è di per sé inconsistente, fotografia e montaggio le danno il colpo di grazia. Bruno si ritrova a camminare in uno stranissimo e particolarissimo bosco grigio. A qualsiasi ora del giorno, la foresta che lo circonda è tinta di grigio. Grigio, grigio, grigio. Ovunque! 1 sfumatura di grigio, direbbe qualcuno. C’è da dire però che, coerentemente con la regia e la storia, anche i tagli di luce e i colori che mette in scena il direttore della fotografia Santiago Serratos sono totalmente scialbi, spenti e piatti.

Ma la vera ciliegina sulla torta è il montaggio. Con una cadenza ciclica di circa cinque-sei minuti, a prescindere da ciò che sta accadendo nella storia, la scena viene spezzata da delle riprese aeree del bosco, accompagnate da musichette generiche da catalogo royalty-free.
Viene spontaneo chiedersi quale sia il senso di tale trovata, ma dopo mezz’ora passata a rivedere la stessa identica inquadratura della foresta, ogni dubbio sul senso delle immagini lascia spazio a una domanda più urgente: “quanto manca ancora?”

Un brutta delusione

Pellicole come La figlia del bosco non danno solo dispiacere: creano rabbia. Perché dimostrano una mancanza di ambizione, di visione, di coraggio.
Il cinema horror italiano ha una tradizione gloriosa — che sia tempo di aggiornarla è ovvio, ma per farlo serve ben altro che una manciata di panoramiche e una trama stiracchiata. Serve voglia. Passione. O anche solo rispetto per chi guarda.

Questa pellicola poteva essere l’inizio di qualcosa. E invece è un triste promemoria di dove siamo finiti. Certo è che potrebbe essere molto utile a spiegare come realizzare al meglio delle riprese aeree di un bosco, ma nulla di più.
La figlia del bosco è una triste bussola impazzita che, più che condurci nel cuore oscuro della foresta, ci lascia a vagare in un nulla fatto di grigi, bambole anonime e dialoghi assurdi.
Che peccato. Che occasione sprecata. Che grande, gigantesco vuoto.

Exit mobile version