Biografilm
Quale Allegria: un percorso tra diversità e fantasia
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23 ore agoon
Da bambini le domande sono tante, spesso infinite, e con esse cresce anche il desiderio di trovare delle risposte. Quando le spiegazioni degli adulti non bastano o si fanno troppo vaghe, si smette di chiedere e si inizia a cercare da soli. L’infanzia è un momento in cui si è liberi di immaginare, di creare connessioni bizzarre e straordinariamente intelligenti, capaci di dare un senso anche a ciò che sembra incomprensibile, riportando un po’ di ordine nel caos e nella complessità del mondo. In Quale Allegria, documentario prodotto da Fantomatico in collaborazione con Rai Cinema e presentato in anteprima alla 21ª edizione di Biografilm, il regista Francesco Frisari ci porta dentro questo processo, raccontando come da bambino abbia costruito proprie risposte attraverso l’immaginario di Lucio Dalla, trovando nei suoi versi, nel suo corpo e nella sua presenza artistica un modo per comprendere ciò che allora lo disorientava.
L’osservazione come distanza e come legame
Il documentario prende forma attorno alla figura di zio Massimo, fratello della madre del regista, affetto da una grave disabilità cognitiva. Fin da piccolo, Frisari lo ha osservato con costanza, quasi con ostinazione. Guardarlo diventava un modo per essergli vicino, ma anche per prenderne le distanze, per capire, per dare senso a comportamenti che gli apparivano tanto diversi quanto familiari. «Guardare vuol dire immaginare» afferma Frisari. E in quell’osservare ogni gesto, ogni parola sconnessa, ogni improvvisa crisi di rabbia dello zio, cercava, appunto, di immaginare un significato, una possibile chiave di lettura per comprendere quel suo incredibile modo di essere così unico e complesso. Perché quella diversità che riconosceva in lui, in qualche modo, la sentiva anche propria
Dallo, lo zio e il riflesso immaginato
Nel tentativo di dare un volto e un nome a questa somiglianza profonda, Frisari – da bambino – costruisce una figura che possa contenere, spiegare e rappresentare questa complessità: Lucio Dalla. Una figura abbastanza fuori dal comune da poter diventare un punto d’incontro tra lui e lo zio. Da qui prende forma, almeno nelle intenzioni, il gioco di specchi su cui si fonda il documentario: Frisari si riconosce nello zio Massimo, e attraverso uno sguardo tutto suo, lo rivede in Lucio Dalla. Il cantautore diventa così una presenza viva ma sfumata nel racconto: le sue canzoni, le sue parole i materiali d’archivio si intrecciano con le immagini della quotidianità dello zio e con la voce narrante del regista, senza però, che la sua figura riesca a imporsi quanto dovrebbe. Questa, accompagna, suggerisce, ma non entra mai davvero nel cuore della storia, che resta invece saldamente ancorata al legame tra Frisari e lo zio.
Somiglianze reali e simboliche
L’associazione tra Dalla e zio Massimo nasce inizialmente da un dettaglio semplice e quasi buffo: i peli. Entrambi ne erano coperti, una caratteristica che, agli occhi del regista ancora bambino, li rendeva speciali, quasi animali fantastici. Crescendo, però, quella somiglianza ha iniziato a caricarsi di significati più sottili e profondi. La loro comunanza non era più solo fisica, ma diventava espressiva. In Dalla, Frisari ritrova una sensibilità affine a quello dello zio: un modo tutto suo di abitare il tempo, di esprimersi, di vivere il silenzio e la dissonanza. L’universo artistico del cantautore – fatto di jazz, parole in bilico, estetiche fuori dagli schemi – diventa così un linguaggio alternativo per interpretare la complessità dello zio, un linguaggio che va oltre le parole e le immagini e che permette di cogliere ciò che altrimenti sfuggirebbe a una lettura logica e lineare delle sue azioni.
Una presenza che si dissolve
Nonostante la costruzione infantile e affascinante che lega simbolicamente Lucio Dalla a zio Massimo, il gioco di rispecchiamenti tra i due non si traduce pienamente in immagini né in una struttura narrativa coerente. La figura del cantautore resta una presenza poetica, evocata più che realmente inserita nella narrazione. Quale Allegria si concentra soprattutto sul vissuto del regista e sulla quotidianità dello zio: le sue routine, le sue crisi, le sue fissazioni. E se da un lato Dalla agisce come voce di fondo, come possibile chiave di lettura, dall’altro non riesce ad acquisire lo stesso peso narrativo né dello zio né della voce del regista. È il rapporto tra Frisari e suo zio a determinare il vero centro emotivo del film, è tra loro che si realizza il vero gioco di specchi. La voce del nipote, la sua presenza è forte e guida l’intero racconto. È lui a costruire significati, a scegliere cosa mostrare e come raccontarlo, a mettere in scena un legame che è fatto tanto di vicinanza quanto di distanza, di identificazione ma anche di frustrazione.
Tra conflitto e riconoscimento
Non si tratta infatti di una simbiosi totale. Tra il regista e lo zio c’è un continuo alternarsi di attrazione e rifiuto, di riconoscimento e distanza. Nei momenti di confronto reale, la relazione non è mai pacificata: emergono tensioni, opinioni divergenti, silenzi, scatti. Eppure, è proprio in questo spazio irrisolto che prende forma il nucleo emotivo più autentico del film. «È esagerato, è stravedere mettere insieme i miei dolori, le mie difficoltà, di me che sono fortunato con le sue?» si chiede Frisari. Ed è in questa domanda – che resta sospesa – che si svela il senso profondo di Quale Allegria: zio Massimo, per il regista, è sempre stato uno specchio enorme e profondissimo, in cui guardarsi per provare a capire sé stesso.