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Pierluigi Manzo: Nel mio libro vi racconto la figura del Press Agent

Un manuale che è quasi un romanzo

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Pierluigi Manzo potrebbe essere benissimo uno dei personaggi dei film di cui cura la comunicazione. Con un accento che non nasconde le sue origini siciliane e quell’ironia che gli consente di vivere la vita a modo suo. Ma non fatevi ingannare dalla posa ieratica della foto sopra, perché Pierluigi è quel tornado che si trasforma in piacevole brezza di parole ed espressioni. Ha qualcosa di profondamente autentico e un’energia irrefrenabile, vorticosa.
Lo raggiungo al telefono per l’intervista. Il tono della sua voce è calmo, le parole esprimono dolcezza, rassicurano. Impegno e sentimento, è questo il suo mantra. Soprattutto adesso che è uscito il suo primo libro, Professione Press Agent, manuale di sopravvivenza. Una vera e propria bussola per orientarsi nell’intricato e meraviglioso dietro le quinte dello spettacolo.

«Ho scritto questo libro senza avere una grande bibliografia di riferimento perché non ci sono opere di questo genere in circolazione. Per me è stata una cosa completamente nuova. Non sono un autore. E ti confesso che ero anche un po’ spaventato».

Ma il suo esordio è stato promettente; la scrittura risulta affilata, fluida e divertente, e invita il lettore a un doppio esercizio: farsi coinvolgere dalla trama e, al contempo, osservare con sguardo critico ciò che ci circonda ogni giorno. In un tempo in cui le parole sembrano spesso consumate prima ancora di essere comprese, questo libro ci ricorda che raccontare bene qualcosa è ancora possibile. E soprattutto, ancora necessario.

L’ho incontrato per parlare di star, media, uffici stampa, e di quella sottile arte – oggi rara – del dire qualcosa senza urlare.

Professione Press agent è sì un manuale, ma è scritto in una maniera così scorrevole da sembrare quasi un romanzo che può arrivare a una larga fascia di pubblico.

Era proprio questo il mio obiettivo! Sono docente di ufficio stampa alla 24ORE Business School, e quando ho iniziato a scrivere questo libro ho pensato di rifarmi alle lezioni che faccio ai ragazzi del corso, tutti molto giovani. Volevo usare un approccio poco didascalico proprio per creare un manuale sui generis che fosse piacevole e potesse arrivare a tutti. Quindi è sì un manuale – e da lì la parola manuale di sopravvivenza – ma c’è anche la parte creativa e molta ironia. E se da un lato Press Agent rappresenta un po’ la mia biografia e parte della storia della mia vita professionale, dall’altro cerca di  parlare a un pubblico che non sa niente del nostro mondo, e lo fa in una maniera semplice che appassiona, anche grazie alle tante esperienze e agli esempi concreti narrati.

Quello che si evince dal libro è l’emozione e al contempo l’umiltà con cui lei si racconta, partendo dagli esordi. Mi descrive questo percorso e cosa l’ha portata a fare un mestiere che, ancora oggi, non è così comune?

In effetti quella dell’ufficio stampa è stata per tanto tempo una figura piuttosto elitaria: l’avevano le vere star e le grandi produzioni. Adesso, fortunatamente, non c’è attore, cortometraggio o documentario che non abbia un ufficio stampa di riferimento, perché tutti riconoscono l’importanza di questa figura nella comunicazione e, quindi, nell’esposizione pubblica. Ritengo di essere un privilegiato, perché faccio un lavoro che mi piace. Il mondo dello spettacolo era il mio sogno fin da bambino. Amavo tantissimo la televisione, forse anche più del cinema che si è insinuato in maniera anche piuttosto casuale.

E in che modo?

Dopo la laurea in Scienza della comunicazione ho mandato il mio primo curriculum. Cercavano degli stagisti per il canale Studio Universal. Stavo rientrando in Sicilia per le ferie estive, ero in bermuda e maglietta, quando mi arriva una telefonata dalla responsabile del canale, Francesca Ginocchi. Mi volevano vedere per una posizione all’interno dell’ufficio stampa di Studio Universal. Avevo di fronte tutta l’estate e tra l’altro non ne sapevo nulla di ufficio stampa, così le risposi che dopo l’estate sarei andato a fare il colloquio. Chiuso il telefono quella parolina Universal iniziò a riecheggiare prepotentemente nelle mie orecchie. Non ci pensai su più di tanto, afferrai il telefono, la richiamai e in bermuda e magliettina la raggiunsi nell’ufficio. Ho fatto così il primo colloquio, al quale ne sono seguiti altri due, e alla fine venni preso.

E com’è stato lavorare per il canale Studio Universal?

Un’esperienza indimenticabile! Sono stato molto fortunato perché, pur facendo lo stagista, mi hanno messo subito in prima linea. Facevo di tutto. Quel lavoro si è trasformato in una bella palestra. A fine contratto lavorativo, come regalo, mi hanno mandato a Venezia insieme al mio capo. Dovevo aiutarla nel coordinare tutte le interviste che faceva il canale. E lì successe qualcosa di inaspettato: le si bloccò la schiena e non riuscì più a muoversi. Avrebbe dovuto sostituirla la senior. Ma il capo mi guardò in faccia e mi disse che ero pronto e potevo benissimo occuparmene io. Mi sono giocato questa grossa occasione e ho portato a casa il risultato. E devo ringraziare anche gli altri uffici stampa che mi hanno supportato. Sono pure riuscito a ottenere un’intervista esclusiva con Tim Burton. A quel punto, anche se il mio tirocinio era concluso, mi rinnovarono per altri tre anni. Poi, la decisione di iniziare un percorso in solitaria e di fare il libero professionista. Ed è nato così l’ufficio stampa ManzoPiccirillo.

Che rapporto ha con i suoi soci, Alessio Piccirillo e Antonino Scalzo?

Fantastico, e non a caso ho dedicato loro le ultime pagine del libro. Sono uno che non crede nel lavoro in solitaria e nella vita cerco comunque il rapporto. Non credo che sarei arrivato al punto dove sono da solo. Sono felice di quello che ho fatto e che sto facendo, e credo che questo dipenda dal fatto che lavoriamo in tre. Siamo tre persone diverse ma tra noi c’è un equilibrio perfetto. Il confronto è fondamentale e avendo tre gusti diversi abbiamo di conseguenza approcci diversi ma la visione è sempre comune. E questo è quello che conta.

Qual è l’elemento più importante per chi vuole approcciarsi oggi alla sua professione?

L’entusiasmo, e lo dico senza alcun dubbio. Perché se non hai entusiasmo per il cinema e per lo spettacolo diventa difficilissimo. A distanza di vent’anni conservo ancora questa euforia e ho mille obiettivi. Adesso, per esempio, curerò l’ufficio stampa della 71esima edizione del Taormina Filmfest, e per me,  che sono nato a Catania e cresciuto a Taormina, è un onore immenso: è come mettere una bella X nella lista degli obiettivi. Ma anche scrivere questo libro è stato il coronamento di un sogno. Per questo parlo di entusiasmo, perché in questo lavoro ci sono momenti stupendi, ai quali però si contrappongon momenti di profondo sconforto. Quando magari la telefonata non arriva, o quando pensi che non ti assegneranno un film al quale tieni tantissimo o quando ti lasci male con un talent che hai seguito per anni. E penso anche ai pochi grazie che riceviamo. Spesso ringraziano la produzione e persino il vicino di casa per avergli dato l’ispirazione, ma quasi nessuno si ricorda dell’ufficio stampa che ha curato tutta la promozione. Malgrado i bocconi amari, non posso che essere grato di lavorare in questo mondo, perché il cinema è arte, ti proietta in mondi completamente diversi. Fare questo lavoro non ti renderà né milionario, né famoso, ma è così bello che è davvero difficile non amarlo.

Nel libro parla spesso di Green Book, un film di cui ha curato, insieme al suo ufficio stampa, la comunicazione. Uno dei fiori all’occhiello della vostra attività.

Green Book è stata un’emozione crescente. Lo abbiamo preso in tempi non sospetti, non era uscito da nessuna parte e doveva ancora andare al Festival di Toronto. Mi avevano detto però che era un prodotto molto valido. E difatti, quando, insieme ai miei colleghi di ManzoPiccirillo vidi una copia, non potevo che concordare. Quando poi fu deciso che quel film avrebbe partecipato alla Festa del cinema di Roma, e che quindi ci sarebbe stato l’attore protagonista, Viggo Mortensen a presentarlo, quell’emozione diventava indicibile. L’ho sempre amato come artista e posso dire di aver conosciuto una persona strepitosa, oserei dire spirituale. Aveva una serenità mentale eccezionale. É stato veramente un incontro bellissimo. Abbiamo scommesso su un film che è oggettivamente stupendo, interpretato in maniera eccellente. E quando è arrivato all’Oscar è stato quasi come vedere un proprio alunno esibirsi al saggio di fine anno. Del resto il nostro lavoro è proprio quello di preparare tutta la comunicazione dei film fino alla loro esibizione. Poi vivono di vita propria e il nostro ruolo di ufficio stampa finisce.

Ma c’è un artista con cui ha sempre desiderato lavorare?

Più che artista posso dire un film. Mi piacerebbe tanto seguire l’opera di un grande regista italiano: Sorrentino, Garrone, tanto per citare qualche nome. Penso che le grandi distribuzioni ci vedano molto mainstream, ed è anche vero che lavoriamo molto con i blockbuster; però mi piacerebbe seguire qualche film d’autore e portare l’opera a Cannes, un festival dove purtroppo non ho mai portato alcun film.

E come attore invece?

Mi sono tolto tante soddisfazioni. Paradossalmente, quello che mi ha gratificato di più non è stato l’incontro con l’attore famoso, ma con un artista che, in un certo senso, ha fatto parte della mia adolescenza. Ti faccio un esempio. Quando ho incontrato Matt Dillon ero al settimo cielo e quasi tremavo, non per il fatto che fosse famoso, ma perché aveva fatto parte della mia adolescenza. Adoravo Rusty il selvaggio e I ragazzi della 56ª strada. Stessa cosa quando ho incontrato la donna bionica, quella dei film degli anni ’80. Ti danno quel senso di emozione che difficilmente si può tradurre a parole.

Beh, adesso però deve raccontarmi un aneddoto divertente.

Parlo sempre di mantenere un certo aplomb, soprattutto quando si ha a che fare con i talent. Premetto, sono sempre stato un grandissimo fan dei Take That. Era appena uscito il loro film, una sorta di reunion per una colonna sonora e dovevo lavorare con loro. Li accompagno in albergo, mantenendo tutto l’aplomb necessario e sforzandomi per non fare uscire il fan che era in me, poi esco nel cortiletto per fumare una sigaretta. Non so come, ma inizio a cantare e ballare la loro canzone, Pray. Mi scateno proprio! All’improvviso sento delle risate provenire da lontano. Alzo la testa e li vedo: sono i Take That affacciati alla finestra che, tra una risatina e l’altra, mi filmano. Se ripenso alla figuraccia che ho fatto mi viene ancora da ridere. Ma la verità è che quando il personaggio si lega alla tua vita, incontrarlo è veramente un’emozione così grande che devi saperla gestire.

Professione Press Agent parla anche di strategia, un elemento molto importante nella comunicazione. Ma come si fa a scegliere la giusta strategia?

La strategia è essenziale, è la prima cosa da attuare, tutto il resto passa in secondo piano. Quando a qualche giornalista o testata diciamo di no, spesso non è tanto per il giornale o la persona in sé, ma perché non fa parte di una certa strategia comunicativa che abbiamo scelto. L’onestà dell’ufficio stampa è fondamentale, sia nei confronti del pubblico che di chi ti commissiona un lavoro. Poi, alla base di una buona strategia deve sempre esserci la conoscenza. Perché alla fine noi non vendiamo nulla, semmai promuoviamo, e questa è una grande differenza rispetto a quella che è una comunicazione pubblicitaria. Quindi devi conoscere assolutamente quello che vuoi promuovere e sapere dove vuoi arrivare.

Sbaglio, o nel libro c’è anche una piccola critica velata al mondo dei social e degli influencer?

Più che critica direi che non mi piace che ci sia confusione tra la figura del giornalista e l’influencer. Quest’ultimo ha a che fare con il marketing, è un personaggio che viene pagato per dire che una cosa può essere valida o meno. La sua è pubblicità, non è affatto informazione. I social, come ho anche scritto nel libro, sono ormai fonti di notizie perché la gente attraverso essi fa tutto: racconta stati d’animo, litiga, divorzia… A volte, attori, attrici e artisti in generale, calcano un po’ troppo la mano e di conseguenza possono essere percepiti dal pubblico come influencer. E questa non è una cosa positiva.

Quindi, qual è il suo rapporto personale con i media e cosa ne pensa del giornalismo di oggi?

Ci sono dentro, per cui non posso escludere il rapporto personale che ho con i giornalisti. Tra l’altro, conosco le difficoltà che affrontano nel loro lavoro che è troppo spesso poco retribuito e tutelato. Svolgono un’opera di intelletto, di propagazione e diffusione della cultura, e spesso percepiscono somme ridicole. Per cui non posso che essere solidale con loro, li stimo. Del giornalismo moderno non mi piace invece questa eccessiva inclinazione alla polemica, la costante ricerca dello scandalo. Se non c’è questo non si accende mai la miccia. E c’è anche una ricerca ossessiva dell’esclusività della notizia. Che poi è una competizione che interessa più alle testate che al pubblico; tant’è che spesso la gente nemmeno se ne accorge o si ricorda se una cosa è uscita su una testata piuttosto che in un’altra.

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