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Mai Maledetto: La Perfezione Spettrale di ‘Phantom Thread’
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7 mesi agoon
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Greta WiethCi sono film che abbagliano, e ci sono film che si insinuano nelle fessure della mente, stabilendovi una residenza silenziosa, senza mai richiedere la vostra attenzione, ma meritandola per sempre. Phantom Thread (Il filo nascosto), la storia d’amore squisitamente bizzarra di Paul Thomas Anderson, appartiene a questa seconda categoria, così esclusiva.
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Non è un film rumoroso, ma è bruciante: un’elegante storia di fantasmi ammantata di raffinatezza sartoriale anni ’50, intessuta di ossessione, controllo e dell’insaziabile bisogno di essere voluti.
Un Amore Cucito nell’Ossessione
Ambientato nel raffinato mondo dell’alta moda londinese degli anni ’50, Phantom Thread segue Reynolds Woodcock, un celebre stilista il cui stile di vita strutturato e rigido viene interrotto da Alma, una giovane donna volitiva che diventa sia la sua musa ispiratrice che la sua compagna.
Quello che inizia come un incontro da favola si trasforma lentamente in una battaglia di volontà. Quando Alma si rende conto della profondità della natura autoritaria e della freddezza emotiva di Reynolds, adotta misure drastiche per riequilibrare il potere tra loro, avvelenandolo non per distruggerlo, ma per creare dipendenza.
La loro dinamica contorta e in continua evoluzione diventa un ritratto inquietante dell’amore come transazione di bisogno, dominio e resa. Non è una storia d’amore tradizionale, ma un passo a due psicologico in cui tenerezza e tossicità sono cucite nella stessa cucitura.
Daniel Day-Lewis: Uno Studio sulla Precisione e la Fragilità
Al centro di questo tessuto psicosessuale c’è Daniel Day-Lewis nei panni di Reynolds Woodcock, un personaggio così meticoloso, così puntiglioso, così incredibilmente specifico da diventare quasi mitologico. Questa è la recitazione nella sua forma più intima e pericolosa. Day-Lewis non interpreta semplicemente Reynolds: incarna la sua immobilità, la sua terrificante calma, il suo disprezzo per le interruzioni e la sua dolorosa vulnerabilità.
Ogni sguardo, ogni pausa, ogni contrazione della mascella o sguardo la dice lunga. Inscena una sorta di terrorismo intimo, così soave da essere quasi perdonabile, così tirannico da essere quasi romantico. Questa non è un’interpretazione per i deboli di cuore. È fredda, calda, contenuta, indomita, umana. E potrebbe benissimo essere il più grande atto finale di un attore che si è rifiutato di dare meno di tutto.
Daniel Day-Lewis come Reynolds Woodcock
Una Sinfonia di Seta: Colonna Sonora e Fotografia
La colonna sonora di Jonny Greenwood non è un semplice accompagnamento: è il cuore del film. Ricca di archi che sembrano confessioni sussurrate, la musica è elegante e tesa come lo stesso Woodcock. Greenwood intreccia desiderio e minaccia in un modo che ti fa sentire come se il film fosse sempre sul punto di baciarti o schiaffeggiarti. O entrambe le cose.
Poi c’è la fotografia. Cristallina, soffusa, tenera. Anderson, che ha curato personalmente la fotografia, cattura tessuti come paesaggi e sguardi come architetture. Le immagini sono quasi antiquate nella loro delicatezza, rifiutando la palette moderna, iper-illuminata e iper-satura, in favore di qualcosa di raffinato e studiato come un orlo da sposa. Questa nitida delicatezza rivela non solo gli abiti, ma anche le anime che si celano dietro di essi: cucite nelle cuciture, nascoste nei fili, come segreti avvolti nel velluto.
Veleno e Possessione: Il Bisogno di Essere Essenziali
Tenero, indifeso e aperto. Phantom Thread è una lettera in immagini delicate ai fantasmi che infestano e custodiscono l’anima nel seno degli abiti. Il bisogno sommesso di essere necessari, così ardente da dover dare in pasto la più piccola morte al proprio amante.
Alma (una Vicky Krieps rivelatrice) avvelena Reynolds, non per fargli del male, ma per renderlo dipendente. È il tipo di follia che l’amore permette. Vogliamo essere essenziali, vogliamo essere indispensabili. E a volte, quando il nostro potere sembra rubato dalla bellezza, dal talento, dalla distanza, lo riaffermiamo nella più intima delle violenze.
Qui, un fungo diventa una lettera d’amore. Una febbre diventa una ninna nanna. Il controllo di un uomo diventa il dominio di una donna. In questo rovesciamento risiede la verità più disarmante del film: che la fame d’amore e la fame di potere a volte sono la stessa brama.
Fantasmi in Gonna: Parallelismi Letterari e Cinematografici
C’è qualcosa di quasi gotico nella sensibilità di Anderson qui: un tira e molla bronteano tra inquietudine e desiderio. “Rebecca” di Daphne du Maurier incombe nell’ombra della narrazione, con Alma come una sorta di anti-Signora Danvers, cancellando delicatamente ma con fermezza il ricordo delle donne che l’hanno preceduta. La relazione evoca sfumature de The Piano (Jane Campion, 1993), Quel che resta del giorno (James Ivory, 1993) e The Master (2012) – il precedente film di Anderson – dove l’intimità è ritualizzata e contenuta, più cerimoniale che di resa.
Non si può ignorare nemmeno l’atmosfera spettrale di “Il giro di vite” di Henry James o la sovversiva domesticità di Who’s Afraid Of Virginia Woolf? (Mike Nichols, 1966), dove il potere viene trasmesso avanti e indietro come un calice avvelenato. Storie in cui bellezza e controllo danzano un valzer pericoloso e dove le donne imparano a maneggiare le uniche armi che la società concede loro: sottigliezza, sacrificio e pazienza.
Un Film Silenzioso, Eterno
Questo film possiede un certo grado di silenzio che non si trova da nessun’altra parte. Anderson ha delicatamente tagliato un pezzo di cuore del cinema e ce lo ha mostrato; è chiaro che sia un gioiello raro che non sarà mai maledetto dal tempo.
Phantom Thread non è una storia d’amore. È una storia sui meccanismi che stanno dietro all’amore: i rituali, la meschinità, la manipolazione, la resa. È tanto soffocante quanto inebriante. E, come lo stesso Reynolds, non chiede mai di essere apprezzato; semplicemente è. Un capolavoro orlato di seta e affilato d’osso.
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