Playing Godè il cortometraggio di animazione di Studio Croma, in proiezione al Figari international film festival. Il corto lo avevamo visionato anche a Linea d’ombra Festival di Salerno e a Venezia durante la SIC. Il corto è diretto dal fondatore dello studio Matteo Burani, con la sceneggiatura scritta dallo stesso Burani e da Gianmarco Valentino. L’animazione, realizzata a passo uno (stop-motion) con la tecnica della claymation, è ad opera di Arianna Gheller. Il film è prodotto in Italia in co-produzione con lo studio francese Autour de Minuit e con il sostegno della Emilia-Romagna Film Commission. La distribuzione in Italia è ad opera di Sayonara Film.
Playing God: giocare il ruolo di Dio
Come suggerisce il titolo, l’argomento centrale di Playing Godè la creazione. Una figura umana modella e dà la vita a una scultura di argilla dalle fattezze umane. Una volta presa coscienza di sé, questa statua vivente si ritrova circondata da altre creature similmente di argilla. Il tema dell’arte come imitazione della creazione divina è antichissimo e ha generato da sempre riflessioni filosofiche positive o critiche intorno ad esso. Questo corto esplora l’argomento con una sensibilità vivida e accorata, immergendo lo spettatore in un’atmosfera cupa ma quasi calorosamente privata.
Il contatto fra creazione e creatore diventa metafora del contatto fra uomo e Dio, in una società che lo ha abbandonato, ma che è anche stata, a sua volta, abbandonata da egli. La metafora si estende, poi, anche alla tecnica: in un corto di animazione dove la realtà concreta è rappresentata dalla plastilina fa capolino una figura attoriale reale. L’opposizione fra animazione e live-action può essere assimilata alla differenza di essenza che intercorre fra umano e divino: in un corto in claymation l’intrusione dell’elemento umano crea una sensazione di estraniamento paragonabile a una visione altra, quasi divina. Ed è proprio la figura umana a farsi creatrice e quindi Dio all’interno di questo parallelismo efficace. La pellicola si presta, comunque, a molteplici interpretazioni e, con la sua esplicitezza, invita lo spettatore a riflettere.
Body horror e stop-motion encomiabile
La crudezza di Playing Godsi presta a lodevoli considerazioni sul lavoro svolto sia per la realizzazione dei pupazzi che per l’animazione degli stessi. La componente orrorifica si concretizza nella messa in scena delle imperfezioni del corpo umano che si spingono fino a mostrificarlo. Se dal punto di vista della pelle dei pupazzi si può notare tutto il pregevole lavoro di modellazione della plastilina, dal punto di vista delle mucose e dei fluidi corporei si può rimanere impressionati dalla verosimiglianza con cui esse, esposte sulle creature “zombie” che circondano la statua di argilla protagonista, mettono a nudo il lato più disgustoso dell’aspetto umano.
Inoltre, è anche la nudità a mortificare ulteriormente i corpi di plastilina. Una nudità che è però viva del lavoro di modellazione compiuto da Arianna Gheller. Le ditate che vengono talvolta lasciate sulla plastilina accentuano il processo di lavoro artigianale che è stato compiuto e si fanno spettro del lavoro di creazione compiuta nella finzione narrativa. Non è certo una prova semplice, poi, lavorare su un numero tanto nutrito di statue di cera caratterizzate soltanto dalle proprie difformità e, per il resto, per nulla dissimili le une dalle altre.
La colonna sonora di Playing God
Ad un’efficace immersione nel reame dell’horror deve contribuire necessariamente la componente sonora. La musica, per lo più assente ma capace di affiorare nei momenti giusti e necessari, è in Playing God mimeticamente tensiva e ansiogena. Il ruolo che svolge è cruciale e il compositore Pier Danio Forni ha saputo destreggiarsi molto bene. Degno di nota è però anche il progettista del suono Quentin Robert. A lui è spettato l’arduo compito di riprodurre tutta una serie di suono letteralmente viscerali e corporali. E ha avuto senz’altro successo nel ricrearli e nel renderli capaci di far accapponare la pelle e provocare una sensazione di disgusto nello spettatore.
Una comunicazione muta
Playing Godè una pellicola muta. Le creature comunicano talvolta per mezzo di versi, ma la comunicazione più viva ed efficace avviene per mezzo dei loro corpi. È questa la scelta più scontata da fare in un film che si incentra così tanto sul body horror, ma non è la scelta più facile. La regia viene incontro in rare occasioni fornendo delle inquadrature simboliche che aiutano a evidenziare le intenzioni dei personaggi. Tuttavia, le inquadrature, sia pur molto variabili, sono comunque limitate a un contesto ristrettissimo, quello di una stanza. Tutto il cortometraggio si svolge, difatti, nel piccolo di un laboratorio artigianale. I protagonisti diventano davvero in tutto e per tutto le sculture di plastilina, che, come già sottolineato, sono sculture tanto nella realtà delle riprese che nella finzione della narrazione.
Tutte queste caratteristiche concorrono a uno storytelling chiaro e comprensibile trasversalmente da qualunque spettatore. Una possibilità senz’altro più facilmente realizzabile nei confini temporali di un corto, ma che, comunque, non si configura mai come una sfida semplice.
Conclusioni
Playing Godè una boccata d’aria fresca come non se ne vedono da tempo nel panorama italiano. La tecnica a passo uno in claymation è estremamente costosa e difficile da padroneggiare e un risultato così fluido e pregevole non è all’altezza di tutti. Questo corto è un traguardo importante tanto per Studio Croma quanto per l’animazione italiana tutta e qualunque amante del genere non dovrebbe rischiare di perdersi questa perla, che viene tuttora trasmessa in svariati festival cinematografici. Se da un lato questo è un traguardo, però, ci si augura che possa anche essere un vero e proprio punto di partenza.