In un ecosistema audiovisivo votato all’intermedialità e alla transmedialità di pratiche e contenuti il documentario musicale sta ricevendo un suo momento di grazia con uscite a intervalli regolari che spaziano dai tour-diary delle pop diva/o (vedi Taylor Swift: The Eras Tour, Renaissance: A film by Beyoncé o il film di prossima uscita nelle sale italiane Jung Kook: I Am Still) alle incursioni nelle figure che hanno solcato la storia della musica e dei generi (Jimi Hendrix: Hear My Train a Comin, Io, noi e Gaber, DallAmeriCaruso. Il concerto perduto).
In un panorama così fitto che tende ciclicamente a ripetersi Mogwai: If The Stars Had A Sounddi Antony Crook si sviluppa come un outsider del genere: creando una visione votata all’ascolto e alla costruzione di un’esperienza musicalmente emotiva il documentario abbandona la ricerca di una spettacolarizzazione della carriera dei Mogwai, gruppo post-rock scozzese e caso sui generis della musica millenials, per un esperienza introspettiva e artisticamente immersiva.
Mogwai nasce come progetto nel 1996, caso unico in un panorama come quello della musica britannica dell’epoca, distante anni luce dalle sonorità introspettive, prevalentemente strumentali, “slow moving” e quiete della band, che condivideva i riflettori degli anni ’90 con le neonate Spice Girls e i prossimi allo scioglimento Take That.
Lontani vent’anni da band come i Joy Division, i The Cure e le sperimentazioni sonore di Brian Eno, Mogwai è un idea contro-corrente e contro-tempo, che insegue musiche in viaggio dal panorama post-punk ’70 britannico ai cori ebraici per lo Yom Kippur.
Raccolto tra un concerto in un mondo post-lockdown e uno nei locali senza finestre di Glasgow all’alba del nuovo millennio Mogwai: If The Stars Had A Sound segue la storia della band scozzese tra classiche interviste frontali ed estesi estratti musicali senza mai cadere alla narrazione indivuduale o al gusto per il gossip. Il vero cuore protagonista del docuementario è sempre e solo la musica. Il suo processo creativo, la sua evoluzione e la sua esecuzione in esperienza emotiva che travolge il documentario stesso, a metà tra visual album e testamento in VHS.
Mogwai: If The Stars Had A Sound raccoglie l’essenza musicale della band lasciando da parte tutto il superfluo, facendo immergere lo spettatore in un’esperienza che, nelle parole del videoartista Douglas Gordon:
porta delle persone dentro la luce per fargli vedere quanto può essere oscura e porta delle persone nell’oscurità così che possano vedere la luce.
Paradigma del documentario retro-romantico
Mogwai: If The Stars Had A Sound si muove esteticamente su due linee visive. Se da un lato sfrutta il lessico tradizionale dell’intervista frontale, dall’altro si immerge nel desiderio di donare un esperienza-concerto allo spettatore, non tanto come visione ravvicinata di uno show ma come evoluzione di un’esperienza: un susseguirsi di effetti misteriosi e psichedelici, specchio della musica e della band che vuole raccontare.
Le interviste frontali vengono accolte dall’immagine e, soprattutto, dal tappeto sonoro, lasciando una buona lezione di come costruire un documentario musicale per, in primo luogo, i fan e la musica, i due direttori principali del racconto.
La narrazione è immersa nel materiale d’archivio anni ’90 e in un’estetica “a tubo catodico” che sa oggi di retrò (seppur vicina) e romantica (seppur estraniante).
E poi spazi vuoti, musiche fantasma e rotazioni concentriche da sinistra a destra, dal basso verso l’alto, dentro una giostra individuale, come a mimare non la musica ma quello che c’è dentro, dietro e intorno ad essa.
Approcciato più come un concerto che come un’opera cinematografica Mogwai forse va visto rispettando questa posizione con la mente aperta al percorso musicale e alle luci paraboliche che ruotano verso di noi, mentre in sottofondo tornano le parole di Gordon:
sto cercando di pensare se ho mai sorriso ascoltato Mogwai. Ma è come mia madre che mi ha sempre chiesto di dipingere raggi di sole, e non l’ho mai fatto.