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Modern Family: un viaggio nella complessità della famiglia di oggi

Giunta alla sua undicesima e ultima stagione, Modern Family ha raccontato di come siano visti, di come debbano essere trattati e di come si debbano accettare temi quali l’omosessualità, le adozioni, l’amore, la morte, i tradimenti e i lutti all’interno dei nuclei famigliari

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Capita più spesso di quanto si possa pensare che, sull’onda di voci positive riguardo a un’opera, quando ci si approccia a qualcosa (film o serie tv) che sembra raccogliere il consenso pressoché unanime all’inizio si è spiazzati e non si capisce cosa sia ad attirare l’attenzione.

Circostanza che si verifica quando si inizia a vedere Modern Family, la serie statunitense creata nel 2009 da Christopher Lloyd e Steven Levitan, arrivata oggi alla sua undicesima stagione, l’ultima, che chiuderà le vicende della protagonista famiglia allargata: narrazione che sembra propagarsi su più piani e personaggi così a tutto tondo, con i quali in principio è difficile entrare in contatto (per una sorta di rifiuto del simile). Però.

Modern Family si interroga prima di tutto su un fattore base: la modernità è davvero come la si racconta con il politically correct?

La sitcom ha da subito regole tutte sue: prima di tutto, pur essendo tecnicamente proprio una situation comedy (utilizzo di una o più case, solo esclusivamente interni, per le riprese, con un insieme fissato di punti di inquadratura, basate sull’interazione emotiva e sociale di un ristretto gruppo di personaggi, per lo più una famiglia, nei quali lo spettatore può identificarsi), si allontana dalle sue simili per stile di scrittura e, soprattutto, per la qualità di ogni singolo episodio. Modern Family si interroga prima di tutto su un fattore base: la modernità -varie estrazioni sociali, sessuali, familiari – è davvero come la si racconta con il politically correct? Il rispetto, naturale e dovuto, verso ogni categoria umana è sempre rappresentato fedelmente?

La cosa straordinaria di Modern Family è che ogni risvolto narrativo viene trattato con la più disarmante semplicità, arrivando a toccare le corde più intime del vivere quotidiano

La serie di Lloyd e Levitan racconta di tre nuclei familiari: Jay Pritchett, pater familias burbero e ricchissimo, ha una seconda moglie molto più giovane di lui, estremamente bella, con due figli a carico, uno di lei e uno della coppia; sua figlia Claire, sposata con Phil e con tre figli disfunzionali (Haley, Alex e Luke); e suo figlio Mitchell, gay dichiarato, sposato con Cameron Tucker, con annessa bambina vietnamita adottata. La varietà di situazioni che scaturisce da un nucleo talmente assortito è chiaramente infinita: ma la cosa straordinaria di Modern Family è che ogni risvolto narrativo viene trattato con la più disarmante semplicità, arrivando a toccare le corde più intime del vivere quotidiano, passando con estrema disinvoltura dalla risata al pianto, dalla gioia al dolore, riuscendo a far sganasciare dalle risate pur facendo pensare che ciò che ha appena creato ilarità ha un sottofondo di malinconia e tristezza che non può che appartenere alla vita reale.

Modern Family ha raccontato per una decade di come siano visti, di come debbano essere trattati e di come si debbano accettare temi quali l’omosessualità, le adozioni, l’amore, la morte, i tradimenti e i lutti

Gli argomenti e i concetti sono i più disparati e vari: e se nella prima e seconda stagione il tono è friendly, con un easy telling che accarezza le tematiche restando però pudicamente in superficie, pian piano la scrittura prende confidenza con i personaggi, che diventano tridimensionali uscendo dalle gabbie narrative e dai clichè, arricchendoli di sfumature e profondità d’animo. Senza mezzi termini, senza falsi moralismi ma soprattutto senza mai annoiare, Modern Family ha raccontato per una decade di come siano visti, di come debbano essere trattati, di come si debbano accettare temi quali l’omosessualità, le adozioni, l’amore, la morte, i tradimenti, i lutti e i distacchi interni a un coding parentale, e sempre con un equilibrio perfetto, sempre in bilico su un buon gusto mai superato. A rendere il ritmo coinvolgente ed estremamente scorrevole aiuta molto poi l’intuizione di riprendere tutti come in un finto documentario, un grottesco mockumentary con sguardi e discorsi in camera come in un confessionale, con la macchina da presa in presa diretta che simula inquadrature in continuo eseguite da fantomatici cameramen di un qualche reality. Il tono surreale del testo evita accuratamente mogli inamidate e mariti in giacca, restituendo il ritratto di un’umanità variegata, come una tribù chiassosa e multiculturale, che nella a volte forzata accettazione della diversità mostra il suo lato più umano e vulnerabile con un necessario realismo emozionante ed identificativo.

La lunghezza è oggi straordinaria per una serie (undici stagioni, che battono le dieci di Friends): ma la vivacità culturale dello stile e l’incredibile altezza dei dialoghi ha permesso che si andasse avanti senza perdere mail il filo o il ritmo. Con un quid in più: seguire la crescita degli attori rendendola protagonista delle storie ha fatto sì che le vicende dei Pritchett assumessero quei contorni di verità che aiuta non poco l’immedesimazione dello spettatore. Dialoghi brillanti e quadretti surreali della profonda ma moderna provincia americana che arrivano dritti come un fuso alla verità del cuore.

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