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Bunch of Kunst, il documentario musicale di Christine Franz sugli Sleaford Mods

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Strettissimo giro di posta nel mio negozio, nemmeno una settimana dall’ultimo articolo ed eccomi qui a scrivere un nuovo pezzo, anche stavolta senza una colonna sonora di mia scelta a supportarmi. Ultimamente non so se il grande capo si sia convinto che il solo fatto di essere un musicista a tempo perso, o perditempo (come sarebbe più giusto dire), faccia di me un critico musicale. Se è così sbaglia di brutto, perché il solo fatto di essere in grado di appiccicare due note una accanto all’altra, allo stesso modo in cui metto in fila due righe di critica cinematografica, sarebbe per me più motivo di biasimo che di merito. Però è anche vero, come direbbe il grande Hunter Tompson, che un bravo giornalista deve essere in grado di districarsi anche nelle situazioni più insidiose. E poi in una redazione esiste pur sempre una gerarchia e se il grande capo in persona ti chiede un pezzo, tu devi farlo!

Quindi, con la sola speranza che in futuro non decida di affidarmi una retrospettiva sul musicarello italiano, andiamo a sbrogliare una matassa complessa. Una bella gatta da pelare questa di Bunch of Kunst, documentario musicale sugli Sleaford Mods diretto da Christine Franz. Problematica perché, in primo luogo il Boss (con la B maiuscola) ha pensato bene di mandarmi il documentario in inglese, senza sottotitoli e quindi sono dovuto impazzire a sbobinarmi tutto il film per tradurmelo un po’ alla volta. Secondo, poi perché, a scanso di equivoci, è bene mettere subito in chiaro che io non è che impazzisca per il duo di Notthingam. Certo, gli riconosco un’attitudine punk alla provocazione, ma la scelta di suoni minimal prodotti e gestiti esclusivamente attraverso un programma di sequenziamento sonoro di un PC (cioè manco un sintetizzatore vero!) che virano nella dub e sulle atmosfere più trendy, quasi dance, non me li fanno amare particolarmente. Con l’eccezione di qualche brano in ordine sparso come tweet tweet tweet.

Una grande idea quella del rock senza rock che però non incontra il mio gusto personale. L’idea  è geniale, lo ammetto, e le tematiche politiche “pesanti” portate avanti dai due “bardi della desolazione” le sposo a pieno, ma forse, per una mia senile rigidità, proprio non riesco a concepire il rock in generale e il punk in particolare, senza almeno una chitarra, seppur scordata. A smussare di molto i miei pregiudizi è la scelta azzeccatissima di far introdurre il filmato alla (inconfondibile) voce fuori campo di Iggy Pop. Un vecchio bastardo che occupa il mio cuore come pochi altri. Escamotage un po’ paraculo che fa con intelligenza da trait d’union tra il vecchio e il nuovo. E l’equilibrio tra passato e presente è una costante che troviamo in tutto Bunch of Kunst. Vuoi perché i due protagonisti non sono più adolescenti bellocci, scappati fuori da qualche boy band, vuoi perché è molto probabile che l’autrice si sia cibata della stessa musica e dello stesso background estetico del sottoscritto, ma i richiami all’immaginario “77” sono evidenti.

La camera segue il duo nei labirinti delle periferie metropolitane, raccontandone la parabola, e ricorda molto alcune cose dello storico “the great rock’n roll swindle”, soprattutto nella scelta dei piani sequenza notturni in soggettiva, inframezzati da interviste a pubblico, amici, parenti, produttori, tutti rigorosamente in ordine sparso. Un caos però solo apparente, come apparenti sono alcune scelte stilistiche retrò. L’immagine come il sonoro, specie quello in presa diretta dei live è di altissima qualità, tanto che chiudendo gli occhi si può avere l’impressione di sentire un CD. L’ordine cronologico della narrazione documentaristica è rigoroso nel ripercorrere l’ascesa della band. Partendo dalle registrazioni in umidi studi rabberciati alla meglio e concerti in sperduti pub o localini incastrati nelle banlieue dell’apocalisse post-liberista. La camera si immerge nel freddo inglese, tra la gente e il sudore delle sigarette fumate fuori i “ballroom”. Insegue gli Slanford Mods in uno sgangherato tour a bordo di una Polo e proprio nella dimensione del viaggio, tra una tappa e l’altra, ne illustra visualmente l’evoluzione. L’ammaccata automobile diventa un bus con posti letto e le piccole sale da concerto si trasformano in palchi sempre più grandi, quelli dei  festival e degli stadi. Fino ad arrivare al traguardo cui ogni band ambisce: l’agognato contratto e la consacrazione.

Come se non bastasse poi, nell’ultima sequenza c’è Iggy Pop che viene ad assistere all’affollatissima esibizione di Helsinki. Insomma, non so voi, ma per me ce ne sarebbe abbastanza per morire felice un minuto dopo la fine del concerto. Se è vero che gli Slanford Mods hanno inventato il rock senza rock, possiamo dire che Bunch of Kunt è un film nostalgico senza nostalgia. Un film pensato e prodotto per i giovani del XXI secolo che ripropone atmosfere e sensazioni che sembrano tratte dalla fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Una felice coniugazione tra ciò che di meglio (la musica) e di peggio (il liberismo) i due periodi hanno prodotto.

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