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Ravenna Nightmare Film Festival: intervista a Bruno Gascon, autore di Carga

Al XVI° Ravenna Nightmare Film Festival abbiamo incontrato il giovane regista portoghese e parlato con lui dell’opera prima, Carga, in competizione nel concorso principale

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Iniziamo dal tema forte che ha voluto raccontare in Carga, quello del traffico degli esseri umani. Cosa l’ha spinto ad affrontare un argomento così drammatico al suo primo lungometraggio?

Ho studiato ad Amsterdam e quando sono tornato a Lisbona ho iniziato a lavorare su alcuni documentari che trattavano di migranti nel mio paese, il Portogallo. Siccome molte di queste storie servivano per dei programmi della televisione nazionale, le volevano solo positive e di successo. Ma il materiale che ho raccolto era tanto e tutte le altre, quelle che raccontano una realtà ben diversa, le ho tenute per me. Sono state la base su cui costruire la sceneggiatura del film.

Quindi è partito da storie vere. L’aspetto che più ci ha colpiti è la capacità di trasmettere il senso di morte e di angoscia che vivono i personaggi rappresentati con ambientazioni vuote e fredde, una scenografia essenziale. C’è un equilibrio tra forma e contenuto ben riuscita. Come è arrivato a questo risultato?

Il tipo di sofferenza che volevo rappresentare era vissuta interiormente, non per forza esplicitata. E comunque, anche in generale la sofferenza alcuni la scelgono di esternare, ma la maggior parte delle persone al contrario non lo fa. E, quindi, ho compiuto questa scelta estetica sulla scenografia per raffigurare questi stati d’animo. E ho preferito lavorare sui personaggi. Ad esempio, uno in particolare, in tutto il film, dice una sola battuta. L’ho fatto perché era un personaggio che aveva un passato di militare combattente in guerra e ho pensato che per rappresentare tutta la sua storia, la sua sofferenza, lo avrei realizzato proprio attraverso il silenzio.

Ci sembra che nel film non ci sia speranza, c’è un senso del tragico dove tutti i protagonisti vanno incontro alla morte. Appare una sorta di metafora di una società che si fonda sul denaro e il possesso. E cosi?

Il traffico degli esseri umani per me vuole principalmente essere una metafora per dimostrare che la vita è fatta tutta di scelte. Una persona ha l’opportunità di scegliere ciò che è bene per tutti o per se stesso. Soprattutto Viktoriya (la protagonista interpretata da Michalina Olszanska, ndr) ha fatto delle scelte infelici per tutti perché ha prevalso il senso di sopravvivenza. Quindi, è un simbolo per dire che tutte le esperienze che una persona vive attraverso la sua vita possono cambiarla così tanto da accecarla. E alla fine del percorso, questa persona non è la stessa dell’inizio. Viktoriya era una ragazza piena di speranze e con dei sogni, mentre alla fine è completamente diversa. Le scelte possono sembrare le migliori in quel momento perché ti portano a sopravvivere, però effettivamente ti cambiano e non sempre ciò è positivo. Inoltre, volevo dimostrare come le scelte che tutti noi facciamo durante la nostra vita ovviamente non hanno conseguenze solo per noi, ma per tutti quelli che ci stanno intorno: la famiglia, gli amici, i conoscenti. E, allo stesso modo, pensando di contribuire alla soluzione del problema, invece finiamo per esserne complici. Vediamo il mondo con i paraocchi: per me vanno bene così le mie scelte senza considerare lo scenario globale e gli effetti che potranno avere sui componenti della comunità in cui vivo.

Ha detto che preferisce lavorare sui personaggi per raffigurare la loro sofferenza interiore. Anche Antonio, l’altro protagonista, ha un percorso parallelo a quello di Viktoriya: anche lui alla fine muta per i sensi di colpa, sembra che sia un contraltare del cambiamento che subisce Vicktoriya. E, così, anche tutti gli altri all’interno del film. Ci può dire come sceglie gli attori e come lavora con loro?

Di solito quando scrivo dei personaggi ho già in mente il tipo di attore che lo deve interpretare e anche in questo caso è stato così. Solo per Viktoriya non avevo una particolare idea, solo che sapesse parlare il russo. Mi sono imbattuto in Michalina Olszanska per puro caso, visionando dei cortometraggi mentre navigavo nel web. In generale, quando parlo con i vari attori che sono disponibili per una determinata parte la scelta dipende sempre da un certo tipo di feeling, di istinto. Parlando con loro capisco se sono giusti per quella parte. In Carga, alla fine, ho creato una connessione reale tra me e ogni singolo attore. Con tutti gli i componenti del cast è nata un’amicizia. C’è una ricerca da parte mia di una forte collaborazione, dobbiamo tutti sentirci a nostro agio per sviluppare al massimo il personaggio, perché alla fine la riuscita è quella migliore.

Ma, quindi, come si traduce questa stretta collaborazione sul set?

Quando costruisco una scena non do indicazioni all’attore del tipo: fai questo, mettiti così, compi il gesto in questo modo per esprimere la determinata emozione. No. Prima di girare la scena c’è una conversazione abbastanza intensa e preparatoria sulle varie emozioni e la psicologia del personaggio. Attraverso questa discussione, di solito, l’attore poi sa come muoversi sul set e come renderle. E se capita che qualcosa non funziona si ritorna a parlare delle emozioni. Non è tanto dirgli: ciò che hai fatto non mi è piaciuto fallo in un altro modo, ma se quello che ho visto non mi ha convinto ritorniamo a parlare delle emozioni che il quel momento sta vivendo il personaggio in quella scena. Quando sei a casa tua sai dov’è il tavolo, la sedia, i tuoi effetti personali, e di conseguenza sei a tuo agio. Voglio che gli attori vivano il set come un ambiente familiare, in modo presente, così la cinepresa lavora per loro e non sono loro a lavorare per la cinepresa.

Abbiamo notato che molte scene sono spazi chiusi e bloccati in cui i personaggi compiono gesti misurati, come se lo spettatore stesse assistendo a una tragedia greca. Quali sono le tue fonti di riferimento culturali e cinematografiche?

La tragedia greca non lo è. Apprezzo molto sia Kubrick che Hitchcock. In particolare, la geometria e la centralità della scena in Kubrick sono un aspetto che ho un po’ adottato e, ovviamente, rivisitato, anche per riuscire a fornire una specie di finestra allo spettatore, per vedere la scena e immedesimarsi con i personaggi.

Per Hitchcock il film era già pronto alla fine della sceneggiatura. Orson Welles diceva che è nel montaggio che si crea l’opera e si vede la mano dell’autore. Kubrick riteneva importante ogni fase del processo della creazione di un film, fino ad arrivare a controllare il doppiaggio e le sale dove sarebbe stato proiettato. Per lei qual è il momento cruciale dove si accende la scintilla creativa e il film diventa opera autonoma?

Il film è già nella mia testa al momento della stesura della sceneggiatura, ma il punto di svolta è quando sono sul set e parlo con gli attori. Lì prende forma l’opera, durante la messa in scena. Quello che ho scritto non sarà mai effettivamente quello si trasforma in immagine. Solo quando approfondisco la psicologia e le motivazioni interiori del personaggio con gli attori capisco quali sono le scene che devo tagliare, allungare o ridurre. Da quel punto in poi in film prende vita.

Un’ultima domanda: ha già un altro progetto in vista?

Sì, sto lavorando al secondo film con la mia troupe su un tema sociale, che sono quelli che più m’interessano. Sarà ambientato negli anni Ottanta e l’argomento principale è la rappresentazione di come la stessa materia possa essere affrontata da due opposti estremismi, che proprio perché lo sono alla fine, in qualche modo, si assomigliano per motivazioni molto simili.

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