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Le conseguenze di Westworld: la recensione della serie tv creata da Nolan e Joy

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Westworld conclude la sua seconda stagione, e non poteva farlo in modo migliore: nonostante in rete (l’ultima frontiera) si legga di tutto e di più al riguardo, è chiaro che l’opera di Nolan sia quanto di meglio l’immaginario audiovisivo possa offrire in questo periodo, e sia senza dubbio un’opera -monumentale, a quanto pare, per i motivi che andremo a vedere- che mette un punto fermo nella narrativa di genere e non solo.

L’intero The Passenger si muove con disinvoltura fra i piani temporali: passato, presente (e futuro…) si susseguono senza soluzione di continuità, come d’altronde chi segue la produzione per grande schermo dell’autore sa già bene.

La frantumazione della continuità temporale, infatti, è solo una delle componenti dello stile di Jonathan Nolan, ma è forse la più importante se vista in funzione del tema principe delle sue ossessioni: la ricerca dell’identità, e il contestuale -doloroso- svelamento del suo senso. Un’identità frantumata e sparpagliata nei piani temporali, dove solo cercando un filo conduttore si riesce a venirne a capo.

I Residenti, la Delos, i Visitatori: sono i tre personaggi principali che compongono quel mosaico labirintico che è Westworld. Le promesse narrative della prima stagione, che mostravano all’orizzonte una trama orizzontale a lunghissima gittata, sono state ampiamente mantenute: perché la storia è ancora ben lontana dall’essere completamente svelata, e probabilmente quello che si è visto finora è solo la punta dell’iceberg di una trama ben più complessa di un “semplice” parco giochi per ricchi annoiati.

The Passenger mostra infatti e finalmente le vere mire della Delos. Non sono tanto i Residenti ad essere oggetto di studio, bensì proprio i Visitatori, coloro che a Westworld vanno per divertirsi senza sapere di essere non solo spiati, quanto seguiti, controllati e conservati con le loro memorie (con un vero e proprio upload cerebrale) per poter permettere all’azienda di progredire con il progetto alla base di tutto: mappare il cervello umano così da poterlo riprodurre e riportare da un corpo di carne (e quindi mortale, passeggero) in un corpo robotico, eterno.

Le conseguenze, narrative e filosofiche, sono tantissime: prima fra tutte, quella che più interessa a Nolan, riguarda da vicino la possibilità di rispondere, o almeno tentarci, su cosa siano realmente i ricordi. Cos’è la memoria. Che differenza c’è fra un ricordo reale e uno falso, se entrambi portano con sé il bagaglio dell’emotività, del dolore?

È questo il nucleo ribollente intorno a cui ruotano le vicende di Dolores – il Residente ribelle, forse il primo -, Bernard – il suo creatore, a sua volta (ri)creato da lei in un vertiginoso gioco di specchi – e Maeve, il trait d’union fra umano e non umano, il corpo che forse meglio di tutti porta con sé le contraddizioni dell’una e dell’altra “specie”.

Tutto questo, mentre la trama ci immerge in una storia dai contorni biblici, con forti richiami religiosi: dalla Forgia, luogo dove le anime dei Visitatori vengono racchiuse, con i suoi accesi colori che virano sul rosso echeggiando stanze infernali; a Logan, figlio del Delos senior, il cui destino viene finalmente rivelato e che diventa un perfetto Virgilio; fino ad Akecheta, probabilmente il personaggio più bello e affascinante di questa seconda stagione, novello Mosè in una Terra Promessa nella quale l’allegoria diventa ancora più evidente quando le acque si separano per offrire una via di fuga estrema ai Residenti. Per finire, ovviamente, con la metafora più esplicita, ovvero Clementine come Cavaliere dell’Apocalisse.

Allegorie e simboli per una storia densissima di avvenimenti e stratificata con sottotesti e cortocircuiti emotivi: e come l’intera Stagione 1, Il Labirinto, era fin dal titolo imperniata sulla scoperta e sul risveglio, questa Stagione 2, La Porta, porta alla luce il nervo scoperto del libero arbitrio, la scelta e le conseguenze delle proprie decisioni. Se per scoprire occorre compiere un viaggio iniziatico attraverso un labirinto, per scegliere bisogna varcare una soglia, fare un passo che porterà comunque in una nuova direzione. Scegliere per cambiare, cambiare per modificarsi, modificarsi per sopravvivere: e quindi “c’è l’origine di un’intera specie da considerare: noi dobbiamo aprire la porta”.

E si che di direzioni nuove Westworld ne presenta più di una, mentre per ogni nodo che scioglie ne ha pronto un altro per stringere un altro mistero: dov’è lo scanner per i Visitatori? Cosa c’è dentro Abernathy? Cosa ha dato Ford a William nel bar? Quale coscienza risiede dentro il corpo di Charlotte Hale? Quali coscienze/identità ha portato con sé Dolores, arrivando nel real world (dove peraltro vive nella casa vista nella prima puntata di stagione, costruita da Arnold/Bernard…)?

Tutte le poche e svogliate certezze costruite con la Stagione 1 sono state quindi abilmente demolite, così come ormai la protagonista indiscussa è la Delos e la sua battaglia contro i dissidenti. Un viaggio fisico, psicologico e personale compiuto da personaggi che sono ormai il Passato, mentre la storia e il suo mood mutano andando sempre avanti, scalando quella “piramide” della conoscenza complessa che probabilmente troverà un senso solo alla fine di tutto.

E questi sono solo alcuni degli interrogativi che si creano mentre scopriamo alcune soluzioni agli enigmi presentati nell’arco di queste prima 20 puntate: tutto si chiude, ma dopo i titoli di coda (e proprio come va di moda oggi al cinema, con il cinema seriale dei Marvel Studios che prende piede) arriva l’ultimissima scena, che dal passato e dal presente ci porta dritti verso il futuro, dove William – ormai quasi certamente anche lui un Residente – incontra Emily in versione anche lei host, in un twist narrativo che chiude un cerchio e disallinea nuovamente tutto.

E tutto ricomincia.

di GianLorenzo Franzì

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