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19 Festival del Cinema Europeo di Lecce: Scary mother di Ana Urushadze

Scary mother, primo lungometraggio della giovanissima georgiana Ana Urushadze, convince e seduce in quanto a freschezza, abilità e maturità

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Che gioia constatare quanto sia vitale e produttivo il nuovo cinema europeo: Scary mother ne è un esempio perfetto. Primo lungometraggio della giovanissima georgiana Ana Urushadze, il film convince e seduce in quanto a freschezza, abilità e maturità. Oltre a contribuire, ovviamente, al dinamismo e al rilancio di un cinema più spericolato ed innovativo. Il film narra le vicende di Manana e della sua famiglia, con la quale entra inevitabilmente in conflitto dopo che la donna sceglie di seguire la sua passione più grande, repressa fino ad allora, ovvero quella della scrittura. Manana, a un certo punto della sua esistenza, decide di sacrificare il mondo che è stato tutta la sua vita fino a quel momento (marito, figli e una realtà tranquilla condotta senza scossoni) per dedicarsi anima e corpo alla stesura di quel libro che sconvolgerà e farà saltare tutti gli equilibri. Perché in questo testo (tacciato principalmente, ma non solo, di pornografia) lei rivelerà la sua essenza più profonda, la sua natura mai espressa e, dunque, si ritroverà a dover scegliere quale direzione seguire: la tranquillità e la sicurezza di una vita condotta da sempre prendendosi cura di marito e figli o la realizzazione artistica, assecondando il processo creativo che è in lei e urge di venire finalmente fuori.

Scary mother è un film sui limiti, sulle frustrazioni, sulle ansie che attanagliano l’individuo, per il quale esprimersi diventa un’impellenza e, al tempo stesso, una sofferenza perché spesso seguire le proprie inclinazioni vuol dire inevitabilmente far soffrire o (nel migliore dei casi) non essere compreso da chi ci sta accanto. A ritrovarsi dinanzi a un simile bivio è nel caso di Scary mother la madre, una donna sull’orlo di una crisi di nervi, verrebbe da dire, proprio perché repressa e rinchiusa in un contesto casalingo-familiare che non le appartiene più o, probabilmente, non le è mai appartenuto. Vivere la propria vita (Vivre sa vie, Godard docet), sentendosi limitati da codici e situazioni che non si sentono propri, non può che generare mostri interiori e frustrazioni. A maggior ragione se è presente un processo artistico interiore (come accade a Manana) che chiede urgentemente di venire alla luce.

Ana Urushadze, la regista, seppur molto giovane, esprime una sensibilità e allo stesso tempo, un rigore (delle immagini e non solo) degne già di un grande autore. Promette molto bene, quindi, questo suo esordio dietro la macchina da presa. In un’atmosfera tragica e fatiscente (che dipinge peraltro alla perfezione il disagio e il malessere della protagonista e dei suoi cari) cresce, si sviluppa e infine culmina quel sacrificio artistico cui Manana si sente chiamata e per cui ha da sempre una vocazione. Reprimere la propria bellezza, le proprie naturali inclinazioni, fa ammalare l’anima. Non ci si renderà mai conto di quello che si è veramente, cercando di essere quello che gli altri si aspettano da noi. Ecco la lezione che bisogna apprendere per non ammalarsi e che emerge da questa bellissima pellicola. Davvero un piccolo gioiello per gli occhi e per l’anima.

Sara Patera

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