La selezione di corti del MedFilm Festival ha offerto quest’anno sorprese a non finire. Anche sul fronte dell’animazione: si potrebbe citare, ad esempio, We Will Arrive Tomorrow di Maria Galliani Dyrvik, modo singolare e a tratti straziante di condensare il dramma siriano, affidando le testimonianze dei profughi sulla guerra e sul loro esodo a immagini animate. Ma tutto sommato il cortometraggio che ci è veramente entrato nell’anima, che ci ha espugnato la mente e il cuore quasi di prepotenza, viene dal Libano ed è Silence di Chadi Aoun.
Altresì noto come Samt, questo breve film d’animazione approccia tecniche e stili di disegno differenti per affrescare una distopia potente, una sorta di grido disperato che attraversa di slancio terre mediorientali qui stilizzate ma ben riconoscibili, contrapponendo le forze sane del mondo arabo (e in particolare quelle nuove generazioni, che sognano già una vita diversa) alle crudeli tirannie che invece impongono diktat religiosi o d’altra natura, reprimono qualunque forma di dissenso, torturano, uccidono.
Nel corto si immagina (senza andare troppo lontano, in fin dei conti, da certe realtà: DAESH docet) che esista una città, Ghabra, dove regna un silenzio assordante e qualsiasi forma espressiva più personale è vietata. Tetri aguzzini in divisa presenti dappertutto si assicurano che l’ordine continui a essere rispettato. In caso contrario si va incontro a una violenza cieca, ad arresti immediati, ad esecuzioni barbare e crudeli. La folla, terrorizzata, è costretta vieppiù a indossare una grigia maschera, che è metonimica nonché metaforica rappresentazione del totale controllo esercitato sulle masse. Ma ci sono ancora giovani pronti a rischiare. Giovani che quella maschera sono infine disposti a toglierla, rivelando alla buon’ora la bellezza dei loro volti, sfidando l’assurdo divieto e incontrandosi di nascosto così da assaporare la musica, il ballo, l’amore e la pallida luce lunare. Tutto ciò, insomma, che il dispotico e orwelliano regime insediatosi a Ghabra vorrebbe loro proibire. La repressione sarà feroce, orribile. Ma che sia anche l’inizio di una più ampia rivolta?
Oltre alla lucidità della denuncia e al pathos genuino che accompagnano l’opera, di Silence colpisce senz’altro la freschezza, la capacità che ha avuto il regista di abbinare a temi ponderosi un impatto visivo notevole. L’animazione adottata da Chadi Aoun cita e rielabora di continuo, riflettendosi paradossalmente in un lavoro dall’impronta assai personale. I giovani ribelli sono a tratti caratterizzati come gli eroi di un manga giapponese. Le meravigliose danzatrici che sfidano la città e le sue regole potrebbero essere persino principesse Disney. Ma questa sorta di immaginario globalizzato non rappresenta un cedimento al gusto altrui, anzi, pare proprio il riappropriarsi di orizzonti più liberi, in una celebrazione della fantasia al (cambio di) potere, che graficamente va a inglobare anche schizzi appena abbozzati e scenari da fumetto underground. Ne consegue un inno alla libertà (negata) che non lascia indifferenti.