‘Passing dreams’, intervista esclusiva al regista Rashid Masharawi
Attraverso il suo cinema, il regista palestinese riesce sempre a comunicare un messaggio di speranza per il futuro nonostante le avversità, come in questo suo ultimo lungometraggio.
Il cinema del regista palestinese Rashid Masharawi ha un focus ben preciso: riuscire a divulgare un messaggio di speranza universale tra le avversità, nella cornice di un territorio sofferente come la Palestina, dove sono state girate la maggior parte delle sue opere. Nonostante il contesto sociale presente nei suoi film, immedesimarsi nei suoi personaggi non risulta così difficile, grazie alla giusta miscela tra ironia, finzione e realtà.
Nel corso della sua carriera i suoi lavori sono stati selezionati e premiati in numerosi festival internazionali, tra cui il Festival di Cannes nel 1996 con Haifa. Masharawi ha sempre sostenuto e sviluppato la produzione cinematografica palestinese, creando anche iniziative per i più giovani cineasti, come il Centro di Produzione e Distribuzione Cinematografica a Ramallah o il Cine Móvil.
Il regista palestinese ha presentato in anteprima europea il suo lungometraggio, Passing dreams, al MedFilm Festival. All’interno della selezione del festival romano era presente From ground Zero, un film collettivo coordinato da Masharawi, che mette insieme 22 autori da Gaza e offre una prospettiva multipla sulle difficoltà quotidiane, le speranze e le aspettative degli abitanti.
Partiamo dal titolo. Passing Dreams sembra un invito ad avere il coraggio di superare i limiti non solo interiori, ma anche geografici e politici, in un mondo che non sembra darci questa possibilità.
Sì, lo è. Ha però anche diversi livelli di significato, è molto simbolico. Sai, i “sogni che passano” possono essere quelli che attraversano la tua mente. Ma Passing Dreams può anche riferirsi al fatto che i tuoi sogni possano svanire. È qualcosa che cerchi, con cui provi a connetterti, con cui tenti di fare i conti. Per me racchiude tutti questi elementi, oltre a ciò che hai appena detto.
C’è una scena per me che forse racchiude l’essenza del film. Il “sogno che attraversa” Sami è talmente intenso che lo rende non curante di ciò che lo circonda. Parliamo di difficoltà che spaventerebbero un adulto, come il checkpoint. È come se fosse un sogno che deve vivere a ogni costo.
Sì, il personaggio di Sami è una combinazione di ingenuità e ostinazione, per così dire. È questo mix che lo rende capace di affrontare un soldato senza esitazioni, anche se potrebbe costargli la vita. Ma lui non si preoccupa di questo perché è determinato a inseguire la sua visione, è tutto rivolto in quella direzione.
Credo che il film sveli meglio la sua motivazione più avanti, quando a Gerusalemme racconta a Miriam dell’anello e di ciò che rappresenta per lui questa ricerca. Per me Passing Dreams è un continuo intreccio tra simbolico e reale, sempre in bilico tra il sogno e la concretezza della vita.
Il film si concentra sulla narrazione, apparentemente. Seguiamo la storia di Sami, e per quanto riusciamo a percepire i luoghi dove si svolge il racconto, il contesto rimane comunque sullo sfondo.
Questo accade perché l’idea di cercare il piccione è, in realtà, un simbolo: rappresenta il fatto che siamo sempre alla ricerca di qualcosa di più grande. Per questo, alla fine del film, non importa se il piccione non viene trovato. La storia non riguarda davvero l’animale. È un viaggio per cercare la Palestina, per scoprire la bellezza dei luoghi, delle persone e dell’intera comunità.
Allo stesso tempo è una ricerca personale, un percorso per scoprire sé stessi. Sebbene la storia si svolga tutta in un solo giorno, volevo mostrare come Sami cambi, passo dopo passo, grazie a tutte le esperienze che vive durante il percorso.
Still from Passing dreams, by Rashid Masharawi.
Lo sguardo verso i giovani nel presente e nel futuro
È un lungo viaggio all’insegna delle emozioni per questo giovane ragazzo. Inoltre, i progetti lungo la tua carriera sembrano spesso ruotare attorno ai giovani. Penso, ad esempio, al Festival de Cine infantil in risposta al dramma che vivono i bambini all’interno dei territori occupati e che crescono nei campi profughi. Ma anche ad altre attività cinematografiche che hai portato avanti nel tempo.
Sì, è vero. Proprio il mio primo lungometraggio, realizzato nel 1994, aveva come protagonista un bambino della stessa età di Sami. Il film si intitola Curfew, in inglese. È stato presentato a Cannes, dove ha anche ricevuto un premio, ed è stato proiettato in vari festival per molti anni.
Questo perché quando lavori sul futuro e ti poni domande sul domani, i bambini diventano inevitabilmente un elemento naturale da esplorare personalmente. Hanno tutta la vita davanti e, per questo, sono un ottimo modo per riflettere e discutere su ciò che accadrà nel futuro.
Rappresentano una sorta di terreno fertile.
Sì, esattamente. In Passing Dreams ci sono due momenti in cui viene chiesto a Sami cosa vuole fare da grande, e lui non lo sa. E in questo caso specifico non è solo una questione di cosa, ma anche di dove. Penso che i bambini abbiano una capacità unica di dire sempre la verità. Sono sinceri, autentici. Credo che abbiano molto da insegnarci su cosa significhi essere veramente se stessi. Per questo ne sono così ispirato.
E per questo ci sono anche il Cine Móvil e le compagnie di produzione cinematografica che hai fondato in questi territori occupati.
Nel 1995, mentre ero fuori dalla Palestina, avevo una carriera soddisfacente, mostrando i miei lavori a case di distribuzione e produzione. Ma decisi di tornare in Palestina, a Ramallah, e fondare il Centro di Produzione Cinematografica. Il mio obiettivo non era solo fare i miei film come regista, sceneggiatore e produttore, ma volevo contribuire alla crescita del cinema palestinese.
Il problema era che non avevo nulla! Nessuna sala dove proiettare i film, nessuna attrezzatura, nessuna troupe. Avevamo alcuni attori teatrali, ma il teatro non ha bisogno di ciò che il cinema richiede per andare avanti. Per riuscire a creare e fondare un cinema che rispecchi il tuo territorio devi certamente fare film, ma anche poterli vedere. Così mi sono trovato a fare molte cose contemporaneamente: ho organizzato workshop e ho creato un cinema mobile, che ho portato avanti per molti anni a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme. E ogni mio film, sia esso un lungometraggio, un corto o un documentario, diventava anche un’opportunità di formazione per nuovi cineasti palestinesi.
Ma soprattutto volevo creare per i bambini l’abitudine di andare al cinema, di vedere i film, perché non esisteva. Parliamo del 1995, e se pensiamo che nel 1987 avvenne l’Intifada in tutta la Palestina, immagina quante difficoltà hanno subito queste persone. E quei bambini, cosa vedevano? L’esercito, l’occupazione, le carceri, la violenza. Quindi penso che fosse anche una cura, per dare loro una visione diversa del mondo. E oggi mi rende felice sapere che molti di quei bambini sono diventati cineasti!
Il duro lavoro dietro Passing dreams
E riguardo alle difficoltà che state vivendo oggi, com’è avvenuta la scelta del cast?
Ogni volta che realizziamo un lungometraggio scegliamo attori dal teatro e lavoriamo duramente per trasformarli e insegnare loro a recitare per la macchina da presa, perché, come ben immagini, la differenza tra teatro e cinema è notevole. In questo caso, la ragazza che interpreta Miriam aveva fatto teatro e lavorava sui social media, ma non aveva mai recitato in un film. Il ragazzo era al suo primo film. Non è stato semplice: devi spiegare loro come mantenere l’evoluzione del personaggio in una storia che si svolge in un solo giorno, e le riprese sono durate sei settimane.
Quindi con i bambini non è stato semplice mantenere la continuità. Abbiamo lavorato molte ore. Si stancavano, chiaramente, e dovevano imparare a memoria il testo e mantenere il personaggio, il comportamento, assicurandoci che capissero sempre cosa stavamo facendo e il perché, di cosa parlava il film. Volevo che fossero completamente consapevoli e partecipassero attivamente. A volte avevamo discussioni interessanti a riguardo, specialmente con la ragazza. Poi c’era lo zio, Ashraf Barhom, che è un professionista. Ha lavorato in molti film europei e palestinesi e per me è un personaggio estremamente riuscito.
Invece riguardo le location, siete rimasti nello stesso territorio o siete riusciti a spostarvi?
Le location erano autentiche. Abbiamo girato a Gerusalemme, a Haifa, a Betlemme, e anche all’interno dei campi profughi e così via. Tutto è stato girato in ambienti reali, con le strade che collegano questi luoghi.
Il lungo viaggio festivaliero di Rashid Masharawi
E com’è stato il riscontro da parte del pubblico all’anteprima mondiale al Cairo International Festival?
È stato positivo. Sono stato davvero felice dopo la prima proiezione al Cairo, perché Passing Dreams non è un film facile da realizzare. La storia è semplice, quindi bisogna riuscire a combinare questa semplicità con elementi metaforici più complessi. Non ci sono grandi azioni, ma tanti simboli, e questo è un terreno rischioso, devi gestire tutto al meglio affinché arrivi allo spettatore. E sono stato felice nel vedere che molte delle difficoltà che ho affrontato durante la scrittura, le riprese e il montaggio per riuscire a trasmettere il messaggio, sono arrivate al pubblico. L’ho percepito dopo la proiezione: nelle discussioni, durante le interviste e nelle conversazioni con i critici cinematografici. Sono stato davvero molto contento.
E la tua anteprima europea avviene proprio al MedFilm Festival a Roma, come ospite d’onore. Cosa significa per te ritornare qui?
Mi piace molto questo festival e ho tanti bei ricordi legati al MedFilm Festival. Qui ho presentato corti e lungometraggi. Sono stato anche giurato, e ancor prima presidente della giuria di giovani studenti che selezionano le opere. L’atmosfera è calda e accogliente, oltre ad avere una selezione formidabile. E ora, con il passare del tempo, anche dei programmi che incentivano la produzione di progetti cinematografici. Lo trovo meraviglioso.
Inoltre, ha a che fare anche con l’Italia, con il cinema italiano e l’atmosfera che si respira, che io adoro. Ho avuto la possibilità di essere in tanti festival italiani che hanno supportato i miei progetti. Ma avrò modo di visitarla ancora: da ora fino alla primavera, circa 40 città in Italia mostreranno From Ground Zero. Forse sette di esse lo proietteranno per un breve periodo, circa una settimana. Questo mi rende felice, perché l’idea è condividere. I festival servono a questo: condividere il cinema.
Il regista Rashid Masharawi e Ginella Vocca, direttrice del MedFilm Festival.
La speranza nelle avversità, il cinema che unisce
Rashid, quali sono le tue speranze per il futuro? Non solo per la Palestina, ma anche per il cinema in generale: perché attraverso i tuoi film non parli solo di un luogo specifico, ma anche dell’amore per il cinema, dopo tutto.
Noi operatori del cinema palestinese viviamo in una situazione contrastante. Da un lato, sono un cineasta che ama il cinema e vuole portare un messaggio di speranza con i miei film, ma dall’altro sono un cittadino palestinese che sta vivendo in prima persona quello che succede là e cerco di partecipare, fare qualcosa. Penso che sia troppo duro, difficile quello che sta accadendo in Palestina, soprattutto a Gaza. E le priorità cambiano in base a ciò che sta succedendo.
Ora la mia speranza è riposta a che tutto questo finisca. Senza parlare di processi politici, stato palestinese, processo di pace, negoziati. Non mi interessa, perché quello che voglio è che fermino tutta la violenza inaudita che si vive in quelle terre. Questo è l’aspetto più importante adesso. Dunque noi, come cineasti, possiamo contribuire anche in minima parte spiegando al mondo che non può continuare così, che deve finire, perché tutte queste persone innocenti, sono artisti, sono bambini, donne, figli, padri.
Per quanto riguarda il cinema palestinese, sono orgoglioso, sono contento di ciò che sta succedendo. Ci sono cineasti, donne e uomini, che fanno bei film, che vengono proiettati in tutto il mondo, che vincono premi, che ottengono distribuzione, coproduzioni con le televisioni. Non perché sono palestinesi, o perché c’è una guerra, o perché sono vittime; ma perché fanno cinema, perché amano l’arte, perché si occupano di cultura. E su questo sono tranquillo. Non sono preoccupato per il cinema palestinese, perché esiste, c’è. Quello che desidero è poter avere giorni migliori, non vivere più tutto questo. Lo meritiamo, come tutti lo meritano.
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