“Ed ecco che essi ti insegnano a non splendere.
E tu splendi, invece!”
Pier Paolo Pasolini
Anomalo, beffardo, impietoso il destino che si abbatte non raramente sull’unico firmamento in terra concesso, quello delle star dello spettacolo che hanno arricchito l’immaginario condiviso, prendendo parte a mitografie per immagini, immortalando personaggi e storie in sinergie di talenti, attraversando con incanto e intuizione differenti espressioni artistiche.
Il 29 ottobre scorso, quando nelle sale italiane si proiettava la versione restaurata in 4k di Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks, ci lasciava l’ultima interprete del cast principale, Teri Garr (1944-2024), che tutta la stampa internazionale al momento della mesta notizia ha battezzato come “indimenticabile nel ruolo dell’assistente Inga”. Così, l’anniversario tanto atteso, il 50esimo, di questo film di culto si è intrecciato funestamente, o forse per un imperscrutabile e torvo destino, con la dipartita di una presenza determinante per l’estro comico della pellicola (come ha ricordato lo stesso Brooks), ma soprattutto di una delle più raffinate, versatili e radiose interpreti dell’intrattenimento americano per almeno tre decenni. Non meritatamente però rilanciata e valorizzata al rango di solista assoluta sulla scena, a causa di un sistema produttivo che lei stessa non mancò di definire “sessista”.
Come è noto ai più, la sorte, non benevola, si era già abbattuta in modo irreversibile sulla vita personale di Teri Garr, con una malattia degenerativa che la sottrasse progressivamente dagli schermi a partire dai primi anni Duemila, fino alle complicazioni fatali del 29 ottobre scorso, provocando in rete ondate collettive di affettuosa memoria e rammarico intriso di nostalgia (del suo stile e del cinema che ha rappresentato), insolito per una caratterista, che, però, seppe rendere talvolta iconici e sempre irresistibili e autentici i suoi ruoli da comprimaria al servizio di grandi registi (Scorsese, Coppola, Pollack, Altman).
Eroina (non solo) comica
Interprete di una recitazione che naviga con naturalezza tutta studiata tra gli opposti, con un velo di candore nella sensualità algida, con accenni di delicatezza nel cupo dramma, distillando una compenetrazione tra dolce inadeguatezza e inquietudine di vivere, tra leggiadro scoramento e pimpante femminilità. Teri Garr fu degna erede delle esponenti della screwball comedy dell’età classica, come Katharine Hepburn, Carole Lombard, Ginger Rogers. Infine, sullo schermo, incarnò l’archetipo di una sensibilità che rifugge l’ordinario ma non la semplicità della vita, nell’affermazione della propria personalità, imperfetta, nevrotica, ma sempre carismatica. E fuori dalla fiction si distinse come ambasciatrice non rassegnata della fragilità della malattia (sclerosi multipla), come voce di denuncia fuori dal coro sui retroscena maschilisti e ottusi di Hollywood. Come ha dichiarato lo sceneggiatore Cinco Paul:
“Mai star, ma sempre splendente”.
Di seguito una carrellata sulle sfumature interpretative con cui Garr ha saputo plasmare con brio ed empatia i ruoli fissi in cui Hollywood la incastonò (tra la compagna devota e la bionda svaporata) e di cui lei stessa si lamentò (le furono negate le parti in Norma Rae e La scelta di Sophie), sempre però grata per le opportunità ricevute, soprattutto da importanti registi.
Una stella danzante
Volto dai lineamenti morbidi, dal sorriso paffuto e contagioso, con uno sguardo intelligente e complice, Teri Garr, nata nell’Ohio nel 1944, figlia di un attore di Broadway e di una ballerina, si affermò artisticamente nella danza e nel musical, partecipando a una tournée di West Side Story e lavorando come comparsa in alcuni film con Elvis Presley, tra cui L’idolo di Acapulco (1963). Forte di una solida preparazione all’Actors Studio, affronterà la gavetta al cinema in piccole parti, talvolta non accreditate, fino alla visibilità meritata con La conversazione di Francis Ford Coppola e Frankenstein Junior di Mel Brooks, entrambi del 1974.
La formazione di ballerina e cantante le fornirà una fluidità di portamento signorile e mai impostata, il senso ritmico delle battute, la musicalità dei tempi comici, unanimemente decretati perfetti, tutte padronanze sceniche che Garr non tradusse mai davanti alla cinepresa con una raffinatezza affettata, ma sotto le seducenti e amabili spoglie di una naturalezza spigliata. Sarà proprio Francis Ford Coppola a valorizzare al meglio questa leggiadra prestanza mimetica al reale, corroborata però con metodo e mestiere, in Un sogno lungo un giorno (1981), sfortunato kolossal musicale in cui Garr interpreta la moglie in una coppia in crisi, alla ricerca di vane distrazioni nel sogno (extraconiugale) in una Las Vegas pirotecnica e fantasmagorica.
Nella scena madre del film, una festosa coreografia corale per le strade della città, Garr libra tra la folla nel suo vestito rosso, finalmente assurta al rango almeno di co-protagonista, senza virtuosismi da ballerina professionista, accennando passi e piroette con improvvisazione solo apparente. In aderenza al suo dolce e mite personaggio, pare emanciparsi dal bagaglio tecnico per dar vita a una partecipazione effervescente e scomposta, ben lontana dai duetti coordinati con Cher nel programma tv The Cher Show. Anche in un successivo ballo a due con l’amante, l’attrice opera quella “repressione della diva interiore” che la marchierà senza astio per tutta la carriera, illuminando però di palpabile affabilità il personaggio, non solo tramite la magica luce incandescente di Vittorio Storaro.
“Un sogno lungo un giorno”
Il cinema delle passioni tristi
Dopo l’iniziatico esordio nella commedia più anarchica e inventiva con Frankenstein Junior, dove Teri Garr nei panni dell’assistente tedesca Inga giocherà le carte di un sex appeal ingenuo e ammiccante al contempo (infallibile comprimaria in sintonia con il misurato estro parodistico di Gene Wilder e Marty Feldman), il percorso nella commedia è tracciato, ma è anche tempo nello stesso anno del dramma più cupo e claustrofobico, alla prima esperienza professionale con Coppola con La conversazione (1974). Nell’intercambiabilità di generi e registri a cui sono avvezzi i grandi commedianti (ben più difficile è il passaggio alla commedia per gli attori prevalentemente drammatici), Garr impersona Amy, la compagna segreta di Harry, un esperto di intercettazioni illecite (Gene Hackman), e sotto lo sguardo di Coppola riveste un’aura onirica che poi diromperà nelle atmosfere immaginifiche di Un sogno lungo un giorno.
La relazione clandestina tra Amy e Harry è relegata nell’appartamento di lei, che nell’unica sequenza di incontro e conversazione mai si muove dal letto, in attesa del suo ambiguo innamorato, irremovibilmente restio a rivelare dettagli di sé, del suo lavoro e del suo vissuto. Per Coppola il personaggio di Teri Garr diventa l’epitome del sogno di un reale affrancato dai segreti altrui e dalla paranoia per la privacy, una chimera solo contemplata dal protagonista.
In questa sequenza di anelito alla normalità (lei), confessioni mancate (lui), l’attrice con la sua chioma bionda riccia e una tenerezza impaziente illumina la scena in livida penombra, accoglie il compagno a letto come su una zattera di salvataggio (e forse il ricordo di Coppola va qui a Ultimo tango a Parigi), distilla nella malinconia di una rottura imminente e irreparabile la forza ariosa di sorrisi che squarciano il livore di questo avvincente racconto spionistico. Ma il contatto fra i due è solo un’oasi di possibilità e Amy/Garr sarà confinata all’ombra di una fugace fantasia che presto si scolorerà nell’incubo per il tormentato detective.
Mater lacrimosa
Convocata pochi anni dopo ancora nel ruolo di compagna remissiva e trascurata in un altro film epocale, Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), Steven Spielberg spingerà la sua recitazione su corde intimistiche più ardite, a nervi tesissimi, di fronte al tracollo emotivo e all’esponenziale follia ossessiva del marito, entrato in contatto con forme di vita aliene.
Garr qui eleva il suo volto a tavolozza delle sfumature dell’angoscia e del disorientamento, dell’impotenza e della protezione filiale, con concessioni all’isteria (mai strabordante) in una scena di violento scontro verbale dove l’attrice imbratta la sua fisionomia angelicata di ordinario personaggio spielberghiano travolto dall’extra-ordinario nell’esplosione del dolore più sfibrante. Una declinazione di sensibilissima immedesimazione sul crinale della nevrosi che noteranno altri autori, ma con un occhio alla satira di costume e alla black comedy.
C’è del metodo in questa follia
Ancora una volta una parte di affiancamento a un personaggio maschile irrisolto e disadattato, ancora una scelta di casting inaspettata e non ricercata. Infatti, quando Teri Garr si presentò ai provini per Tootsie (1982) di Sidney Pollack, aspirava al ruolo della soave rubacuori Julie, che andò invece Jessica Lange (poi premio Oscar da non protagonista); ottenne invece la parte di Sandy, attrice arrancante e inconsolabile, amica e spasimante respinta dello sventurato collega Michael (Dustin Hoffman). Il cerchio parve quindi chiudersi a distanza di quasi dieci anni, quando per Frankenstein Junior Garr si candidò per interpretare Elizabeth, la facoltosa e altera fidanzata del dottore; senza successo, ma Brooks e Wilder, trovando irresistibile la sua verve, la scritturarono per il ruolo di Inga.
Cortocircuiti stranianti tra vita e cinema, fonte di rassegnazione ma non di avvilimento per Garr, che paiono iscritti anche nel suo personaggio in Tootsie, quello di un’attrice snobbata sia dall’amico di sempre che le preferisce un’altra donna più intrigante e meno problematica, sia dai direttori di casting di una serie tv che le preferiscono, ignari, proprio Michael … travestito da donna.
Proprio in un duetto memorabile con Dustin Hoffman, Garr fornisce una prova di istrionismo di classe, a briglia corta, eccentrica ma non eccessiva, di una nevrosi cadenzata in tempi comici e battaglieri, quando Michael le confessa l’amore per Julie. Un battibecco al vetriolo che Garr dipana senza una pausa di troppo, senza sbavature grottesche, prendendo la scena a Hoffman, o meglio costruendo di fronte alla macchina da presa il suo spazio di interprete tragicomica, quasi un balletto vulcanico di folie à une che conferiscono al personaggio una caratterizzazione volitiva e non patetica, una femminilità moderna e spumeggiante.
“Tootsie”
Equilibrista scatenata
“La più divertente, nevrotica e stordita dama sullo schermo”.
Pauline Kael
Variopinta e stralunata la galleria di figure femminili in cui si imbatte Paul Hackett (Griffin Dunne), ingrigito programmatore informatico di New York, intrappolato a cielo aperto per un destino kafkiano in notturne, allucinanti, pericolosissime disavventure a Soho, quando, perduto il denaro per un taxi, resta stritolato da un vortice urbano di artisti da strapazzo, attraenti ragazze vendicative, scambi di persona, linciaggi alla cieca. In Fuori orario (1985) Martin Scorsese dirige una commedia tachicardica e ironica che è anche un viaggio noir non rappacificante, tra le forze ombrose e destrutturanti del femminino, in risposta al dongiovannismo d’accatto, all’imperante yuppismo degli anni Ottanta.
Teri Garr impersona Julie, una cameriera annoiata e psicolabile, che raccatta Paul nel suo appartamento, dopo l’ennesimo sberleffo in quella notte angosciante; ancora una volta per Garr, una donna insoddisfatta del suo lavoro che non la valorizza. La sua instabilità mentale fa presto naufragare per Paul la speranza di un possibile approdo di pace contro la sua capricciosa sfortuna. Capelli racconti retrò, abito giallo tenue (simbolo biblico di radiosità celeste, che il cattolico regista conosce), ospitalità impacciata di una donna volubile e vulnerabile: Scorsese e Garr ritraggono più che un personaggio un tipo femminino buffo e sconcertante, dove la sagoma un po’cartoonesca di una picchiatella naïf sfuma in un’apoteosi di anticonvenzionalismo e spirito deflagrante che irretisce il maschio nelle sue sicurezze.
Garr compone una sua poetica di sguardi, ora dolci e ammiccanti, ora feriti e iracondi, una modulazione della gestualità che diventa una sfuggente partitura di contrari, tra orgoglio di donna e autostima scricchiolante. Una performance da caratterista raffinata che travalica i cliché dello stereotipo, pur lavorando su di essi, per inserirsi a buon diritto nella tradizione di attrici della screwball comedy, ma qui a tinte decisamente più inquietanti.
“Fuori orario”
Altri palcoscenici
Assidue e di prestigio sono state negli anni le partecipazioni a show ormai parte della storia della televisione statunitense, dove Teri Garr poté far fruttare sempre brillantemente la sua inventiva comica, al Saturday Night Live, al Tonight Show di Jimmy Carson, imbastendo poi gag improvvisate con David Letterman (che le ha dichiarato una stima sconfinata), imponendosi con la consueta grazia come modello per altre attrici, tra cui Tina Fey.
Proprio la televisione, dove Garr aveva svolto fin dagli esordi una lunga gavetta anche in serie tv e telefilm, le offrì l’ultimo ruolo iconico e quello più generazionale, come madre biologica di Phoebe (Lisa Kudrow) in tre episodi di Friends tra la terza e la quarta stagione (1997-1998).
Dietro l’impalcatura della sit-com il suo personaggio di donna matura dal passato sentimentale disinibito cela un velo di sconforto per l’abbandono di Phoebe da neonata, data in adozione per una scelta sconsiderata di una giovinezza acerba. Qui lo stile interpretativo di Garr è sempre smagliante, nonostante gli anni trascorsi, ancora intatto il suo tocco multiforme nell’accarezzare corde d’animo ondivaghe, contrapposte addirittura nella stessa inquadratura. Una sonata di mestizia e delicato umorismo, quando questa madre imperfetta pronuncia un’ammissione di colpa e pentimento, dissolta poi in una rispettosa battuta disincantata che apre un indulgente sorriso.
“Friends”
Candle in the Wind
Doveroso ricordare che in una scena Phoebe/Kudrow, ancora confusa sull’identità di questa donna da poco ritrovata che si spaccia, mentendo, come un’ex amica della madre, penetra di nascosto di notte nel suo appuntamento a caccia di indizi sul suo passato di figlia respinta e adottata. Svegliata dai rumori, entra in cucina Teri Garr, allarmata per una presunta infrazione di ladri. Indossa una vestaglia e brandisce una stampella d’armadio a mo’ di arma: il ricordo si tuffa inevitabilmente con nostalgia in una delle scene più amate, citate e proverbiali di Frankenstein Junior, quella notturna appunto, in vestaglia e con quell’oggetto di comicità che era la candela, qui soppiantata da un arnese meno gotico ma più strampalato.
Non la quadratura di una carriera irripetibile, in piena luce nonostante la penombra dei ruoli, ma l’autocitazione spiritosa a postilla di uno stile comico e drammatico che non lascia eredi ma molti imitatori, come ha ricordato Lisa Kudrow: quasi uno sguardo in macchina d’intesa che solo Teri Garr sullo schermo avrebbe saputo splendidamente tradurre.