Che la pandemia abbia causato problemi economici, sociali e psicologici, lo sappiamo bene. Ognuno di noi, per un motivo o per l’altro, sta fronteggiando le conseguenze di quel lungo periodo di lockdown. L’arte ha già iniziato a raccontarcelo, ambientandovi storie con una contestualizzazione visiva di mascherine e disinfettanti, o narrandolo attivamente (un esempio di quest’ultimo potrebbe essere Fuori era primavera di G. Salvatores).
Grand Theft Hamlet (2024), diretto da Sam Crane e Pinny Grylls, fa parte di questo gruppo di film. Ma in Grand Theft Hamlet non vediamo grandi piazze e strade vuote, né osserviamo volti di persone reali coperti da ingombranti mascherine. Il luogo scelto per ambientare questo racconto pandemico è, infatti, il videogioco Grand Theft Auto e i protagonisti sono gli avatar dei due registi. La loro missione è quella di mettere in scena l’opera shakespaeriana, Amleto, all’interno del videogioco, coinvolgendo alcuni utenti incontrati online. Il documentario diventa così l’ occasione per parlare di diverse tematiche, che spaziano dalle già citate conseguenze post covid, fino a un’analisi del videogioco come ottimo contesto di aggregazione sociale. Certo, “ottimo” solo se non se ne abusa…
Grand Theft Hamlet è costruito come una sorta di diretta Twitch. Si sussegue una serie di sequenze di gioco commentate che ci raccontano la realizzazione di questo ludic Hamlet.
Una ludico-terapia tra le mura domestiche
Gli studi di Jenkins e dintorni ci descrivono i videogiochi come luoghi tutt’altro che diseducativi. Se da un lato la società li condanna, specialmente se ci si trova di fronte ad un violento Grand Theft Auto, dall’altro vi è chi propaganda un loro uso consapevole. Ciò affinché divengano terreni di costruzione del sé e di abilità non altrimenti praticate. Nel corso del film, incontriamo delle persone (e non user) che per un motivo o per l’altro stanno cercando un contesto adatto per sfogarsi o rifugiarsi.
Il primo a parlare apertamente della sua frustrazione è proprio uno dei due registi del film. Egli vorrebbe creare una performance videoludica dell’opera shakespeariana perché non può lavorare in un teatro “vero” a causa del lockdown. È una sorta di compensazione per non poter praticare il suo mestiere. Lui e il suo personaggio di GTA sono lo specchio di tutti i lavoratori dello spettacolo, bistrattati in contesti storico-sociali “normali”. Figuriamoci durante la pandemia…
Ma non è solo lui a esprimere disagio: abbiamo infatti un utente transessuale che parla del suo coming out, un altro che racconta di quanto la pandemia lo abbia costretto in una casa dove l’ambiente non è affatto sereno, e varie altre storie. E siccome la psicoterapia è beneficio per pochi fortunati, crearsi uno spazio sicuro è importante per chi non ha altri modi per evadere (specialmente se un virus ci costringe dentro casa).
Un’indagine etnografica inconsapevole
Grand Theft Hamlet non è un prodotto tecnicamente memorabile (avrebbe potuto sfruttare le sue possibilità per tematizzare la questione della regia nei videogame), ma è sicuramente un ottimo trattato netnografico. L’essere umano e sociale del ventunesimo secolo, specialmente dopo la pandemia, non è riducibile ai legami che crea (o meno) nel reale. Vero, agli schermi bisogna stare attenti, ma bisogna anche dar loro la possibilità di creare cornici umane uniche e irripetibili.
Il docufilm di Crane e Grylls forse voleva essere solo un “gioco nel gioco” o un passatempo tra amici. Eppure, il risultato è un’opera molto più complessa di così. Del ludic Hamlet noi vedremo ben poco, solo qualche stralcio nel finale, perché si è preferito privilegiare il processo più che il risultato (ennesimo insegnamento per la nostra quotidianità, pensate un po’).
Noi, nonostante probabilmente contornati dal calore umano mentre fruiamo di Grand Theft Hamlet, veniamo (ri)catapultati in quella solitudine che ha caratterizzato almeno due anni delle nostre vite. Un periodo nel quale non esistevano altro che incertezze, malattia, paure. Che ci sembra così lontano ma che è invece vivissimo nella nostra psico-emotività. E infatti davanti alla performance finale in diretta su YouTube, una lacrimuccia scende giù…