‘Fino alla fine’ di Gabriele Muccino: fuori dalla zona di comfort, ma solo in parte
"La vita è il risultato delle scelte che facciamo". In anteprima mondiale alla Festa del cinema di Roma 2024, il 13esimo attesissimo film del regista romano è un thriller dal ritmo incessante che si svolge nell'arco di 24 ore a Palermo. Al cinema dal 31 ottobre
“Questa storia riproduce un archetipo fondamentalmente, che è quello di andare incontro all’ignoto”. Gabriele Muccino introduce così il suo ultimo lungometraggio Fino alla fine. Una pellicola che si presenta come thriller, ma che mescola generi diversi dal sentimentale/erotico, alla dramedy, al coming of age fino alla mafia story e all’action movie, sintomo di una grande maestria nell’attraversare registri diversi senza mai aderirvi completamente. Muccino si conferma, infatti, uno dei registi meno ancorati alla lunga e spesso mastodontica tradizione cinematografica italiana, e quindi più versatile e camaleontico, anche grazie alle influenze del cinema oltreoceano.
Il film in questione presenta tutti gli elementi che contraddistinguono la cifra stilistica del regista: l’autodeterminismo spesso fallimentare, il dolore come terzo nei rapporti umani, la tragedia come nocciolo dell’esistenza e la comicità a rendere buffi i personaggi nelle loro sventure. Eppure, in Fino alla fine il regista si mette in gioco, portando il lato oscuro già esplorato proprio di recente nella seconda stagione di A casa tutti bene, verso lidi finora a lui sconosciuti, realizzando un tentativo sicuramente apprezzabile di arricchire la sua cinematografia, ma riuscendo solo in parte a centrare l’obiettivo.
Muccino è anche autore della sceneggiatura insieme a Paolo Costella. Il film è prodotto da Lotus Production, una società Leone Film Group con Rai Cinema, in associazione con Adler e con Ela Film. Muccino dirige un cast italiano e internazionale composto da Elena Kampouris, Saul Nanni, Lorenzo Richelmy, Enrico Inserra, Francesco Garilli, Ruby Kammer, Yan Tual, Mitch Salm, Grace Ambrose, Syama Rayner, Samuel Kay.
Sophie è una giovane statunitense di vent’anni in vacanza a Palermo con la sorella. Quando sta per tornare in California, nelle ultime 24 ore del suo soggiorno in Sicilia, incontra Giulio e il suo gruppo di amici. Saranno proprio queste 24 ore a cambiare per sempre il corso della sua vita. Sophie scoprirà che la vita è fatta di scelte e quelle che farà la porteranno a camminare sull’orlo del baratro, trasformando una semplice storia d’amore in una di sopravvivenza, riscatto e pura adrenalina. Questo gruppo di ventenni, ancora inesperti nel maneggiare la vita, scopriranno quanto sia facile commettere errori.
Fino alla fine: un climax di eventi in una Palermo che scotta
Quando Sophie (Elena Kampouris) arriva a Palermo, si comprende subito che sta attraversando un periodo difficile. La recente morte del padre ha scombussolato tutti i suoi piani e si ritrova, infelice e confusa, a non avere direzione e a reprimere rabbia ed energie. Attratta dall’ignoto, fosse anche soltanto per provare emozioni che la scuotano dall’attuale torpore, bypassa rischi e paure che sarebbero potuti emergere dall’incontro con Giulio (Saul Nanni) e i suoi tre amici.
Coraggiosa o matta, non lo so ancora.
Si fa assorbire completamente da quel ragazzo sconosciuto e da un mondo alla deriva che la porterà verso un finale per lei inimmaginabile. Le cose sarebbero potute andare diversamente?
In circa 24 ore, la vita della giovane americana, proprio come i viottoli stretti e serpeggianti la città di Palermo, prenderà una piega sempre diversa, più tragica e vitale. Nella struttura narrativa del film, l’evoluzione della trama sembra costruita per confermare l’assunto iniziale: le azioni dipendono da scelte precise (piccolissime, anche apparentemente infinitesimali) e ognuna di loro ha conseguenze inevitabili. Ma è davvero così? Possiamo, senza alcun dubbio, affermare che la casualità non giochi un ruolo altrettanto determinante in tutto questo? Le domande che accompagnano lo spettatore all’inizio del film paiono restare tali anche con la sua conclusione. L’elemento sorprendente della vita e delle esperienze tutte è proprio quel mix imprevedibile tra determinismo e fato e il thriller non può non contemplare questa indiscutibile verità, giacché rischia di arrotolarsi su se stesso.
Fino alla fine: la seconda parte del film non è all’altezza della prima
Se nella prima parte di Fino alla fine, gli elementi che contribuiscono a creare il climax drammatico della vicenda – una ragazza smarrita e addolorata, un gruppo di amici arrischiati in vicende fuori dal loro controllo, un trama che aggiunge tasselli che complicano il quadro generale -, nella seconda metà, invece, la confusione tende a prevalere, con l’eventualità che lo spettatore venga distolto dagli aspetti maggiormente interessanti della nuova proposta di Muccino. Nel primo tempo del lungometraggio, infatti, si accenna – ben incastonati nella trama – a temi anche di levatura contenutistica quali “la lotta di classe”, la perdizione della gioventù, il dolore come motore decisionale e l’umanità come misera e senza speranza di progettualità, capace di agire soltanto nel qui e ora (nella versione originale, il titolo del film è proprio Here Now).
Non ci sono bugie per il dolore. Il dolore è sempre vero, mentre la felicità andrà via.
Tuttavia, nel secondo tempo, il tentativo di piegare il corso degli eventi sulla quella premessa iniziale scompagina la trama, lasciando andare pezzi rilevanti del racconto, e fa sbilanciare l’equilibrio dei registri, con il risultato di una scrittura dai connotati mèlo, una love story che tende a prendersi tutto lo spazio possibile ed una deriva a tratti citazionista – Titanic, per esempio in una delle scene con Sophie e Giulio – che non aggiungono e non tolgono nulla ad una narrazione che sembra perdere la bussola. L’esito di questa operazione non convince, nonostante l’apprezzabile volontà di innovarsi. Un gran peccato, perché Muccino sa come si sta nei labirinti, ma sa anche come uscirne.
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