Nonostante l’apparenza dimessa dei suoi ruoli, Milena Vukotic esprime un’energia brillante e distante, un’intensità profonda e disarmante. Tutto in lei sembra minuto e minimo, quasi fiabesco, trasmettendo una calma da opera classica, come la danza che è stata la sua prima formazione artistica. Specializzata in personaggi (spesso solo apparentemente) secondari, è stampata nell’immaginario collettivo come la signora Pina, la moglie del soccombente cinematografico italiano per eccellenza, il ragionier Ugo Fantozzi. Se il ruolo nel Medico in famiglia l’ha resa popolare nei panni di Enrica, che infine sposerà il consuocero nonno Libero (Lino Banfi), la carriera di Milena Vukotic è piena di partecipazioni a decine di opere teatrali e sceneggiati televisivi. In punta di piedi, Milena Vukotic ha attraversato tutta la storia del cinema italiano e non solo, lavorando con alcuni dei migliori registi del grande schermo dagli anni Sessanta in poi, tra i quali si ricordano, almeno, Ettore Scola, Mario Monicelli, Lina Wertmüller, Dino Risi, Steno, Carlo Lizzani, Federico Fellini, Carlo Verdone, Luis Buñuel, Bernardo Bertolucci, Nanni Loy, Mauro Bolognini, Andrej Tarkovskij, Nagisa Ōshima, Walerian Borowczyk, Franco Zeffirelli e Ferzan Özpetek.

Un medico in famiglia
Quale, fra i suoi tanti ruoli, quello che, a sua memoria, l’ha impegnata di più?
Alla fine, il ruolo che più si ricorda, nel bene o nel male, è sempre l’ultimo. E l’ultimo personaggio che ho interpretato è stato a teatro, come sempre più spesso mi capita, in Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello. È sicuramente uno dei ruoli più impegnativi e difficili che mi sia mai capitato di fare. Ci si innamora dell’ultima cosa che si è fatta perché tale è l’impegno e l’assoluta dedizione che ci vuole a interpretare un personaggio, che sembra quasi sempre sia quella la cosa più importante che si sia fatta. E, in questo caso, recitare in un’opera di Luigi Pirandello, probabilmente lo è veramente. Affrontare Pirandello è un grande bellissimo viaggio, interiore ed esteriore, per quel che poi ne viene fuori sulla scena.
Luigi Pirandello è un autore dell’inizio del secolo scorso. È ancora così attuale ai nostri giorni?
Lo è moltissimo. A me sembra lo sia sempre di più, addirittura più che al suo tempo. Luigi Pirandello è l’autore del relativismo conoscitivo, per cui tutto è vero a seconda del punto di vista. Noi viviamo in un tempo completamente frantumato, in una continua rincorsa di una verità che ci sfugge inevitabilmente, in ogni campo della nostra vita, da quello personale a quello sociale a quello politico. Luigi Pirandello incarna questa relatività. Pirandello è l’oggi. Noi siamo Pirandello. Lo siamo diventati tutti.

Milena Vukotic e Pino Micol in Così è (se vi pare)
Lei ha attraversato tante stagioni del cinema italiano, dagli anni Sessanta a oggi. Che cosa le sembra sia cambiato da quando ha iniziato?
Ho visto molte cose cambiare in tutti questi anni. Limitandomi al mondo del cinema, ho sentito fortissimo il passaggio di questi decenni. Vivo con grandissimo dolore il fatto che il cinema, prima di tutto, è diminuito. La gente preferisce stare in poltrona a casa a seguire la televisione. Si è perso il culto di andare in una sala a condividere l’arte del cinema sul grande schermo. Naturalmente, questo ha diminuito la produzione e ostacolato la distribuzione di film. Mi sembra evidente come, nel cinema di oggi, ci siano meno mezzi economici. Io spero sempre, perché sono ottimista di natura, che questa abitudine ricominci. Credo che abbiamo tutti bisogno di ritornare al cinema, inteso come rito artistico e sociale collettivo. E poi abbiamo bisogno di fare più cinema, perché è l’unico modo per dare possibilità a nuovi registi di emergere e dare ad altri maggiore continuità nel loro lavoro.
Questa crisi di pubblico nelle sale è una situazione generale, ma particolarmente italiana. Dipende tutto dagli spettatori?
È un discorso sicuramente complesso che, secondo me, si lega sia a una questione di regressione culturale sia a una questione economica. Non parlo solo di una questione economica che riguarda il pubblico, cioè persone che, tendenzialmente, spendono sempre meno in cultura, ma vedo che, anche a livello di produzioni cinematografiche, ci sono remore sempre più grandi, la tendenza a non rischiare su autori giovani che, magari, hanno grande talento, ma non la possibilità di esprimersi, perché si punta sempre più sul sicuro, su registi e formule già (a volte troppo) collaudate. Mi sembra una situazione che degenera sempre di più. Probabilmente, la situazione italiana è più grave delle altre, ma, purtroppo, mi sembra ampiamente generalizzata. L’impressione è che, come non rischino più i produttori, così non rischi più neanche il pubblico, nell’andare a cercare qualcosa di diverso dal consueto. Poi, certamente, il proliferare delle piattaforme e delle televisioni private ha fatto la sua parte, enorme, nel tenerci sempre più tra le mura di casa. A me sembra un delitto che, con tutto il talento che hanno gli italiani nel campo dell’arte, ci si debba sempre ritrovare a fare la parte dei parenti poveri al cospetto del resto d’Europa o del mondo, quando, invece, ne abbiamo da insegnare, e lo abbiamo fatto, lungamente, a tutti.

Milena Vukotic ed Enrico Montesano in Le braghe del padrone (1978)
La sua è una carriera divisa fra teatro e cinema, come quasi sempre accadeva agli attori di un’altra generazione.
Molto spesso mi chiedono se io preferisca il teatro o il cinema. A teatro fai la tua replica tutte le sere, ma c’è l’imprevisto del pubblico e l’emozione di trovarsi di fronte a una platea che ti guarda, ti fissa negli occhi, in qualche modo ci si sente più esposti che durante le riprese. Ma io, anche quando sono sul set, sento lo stesso una grandissima partecipazione al personaggio, al ruolo, a quello che faccio, nonostante tutte le contraddizioni del fare cinema, di quel mondo. Quando giri un film, magari nella storia è inverno e, invece, nella realtà, è estate, oppure ti capita di fare l’ultima scena del film il primo giorno delle riprese e molte altre situazioni di questo tipo. Può sembrare paradossale, ma questo ha per me un grande fascino. In questo consiste, dentro di me, il mistero e la magia del recitare per il cinema. Trovarsi lì a fare delle cose slegate dal tempo esterno e, spesso, anche da una narrazione cronologica della storia che si racconta e poi vedere, magicamente, nell’opera finita, come tutto trova un suo posto. Sono ancora conquistata da questo stupore. Non si possono paragonare teatro e cinema, sono due cose diverse. Le amo entrambe, in maniera differente, e non faccio mai una classifica d’importanza tra le due arti. Amo il cinema e il teatro appassionatamente, sia come interprete sia come spettatrice.
Si emoziona ancora dopo così tanti anni di attività, recitando?
Sì, moltissimo. È sempre stata una parte importante di questo mestiere e lo è ancora. Io questa emozione che si sente alla fine dello spettacolo, con il pubblico che ti applaude, la sento ancora come il primo giorno. E lo stesso quando si gira una scena sul set. Certo percepisco le due cose diversamente, ma mi stimolano entrambe, in maniera forte, altrimenti non riuscirei a continuare ancora, dopo tanti anni, a fare questo mestiere.

Milena Vukotic in Il fascino discreto della borghesia (1972)
Qual è il ruolo dell’attore oggi, a teatro e nel cinema? Quanta autonomia interpretativa gli è rimasta nel costruire il suo personaggio? È cambiata nel corso del tempo?
È la situazione che è cambiata e ci ha posto dentro tante contraddizioni. Un tempo, l’attore di teatro faceva solo quello e non era distratto da altre possibilità. Di conseguenza, ci si concentrava solo sul teatro e sulle possibilità di svilupparlo sempre di più. Adesso, tra cinema e televisione, il tutto assume una dimensione meno integra, difficile da sostenere per un attore che abbia la possibilità di scegliere. La tentazione economica, inevitabilmente, è forte, e condiziona le scelte, anche dei migliori.
Nell’immaginario collettivo, lei è conosciuta soprattutto come la moglie del ragionier Fantozzi. Quanto l’ha perseguitata nel tempo questo ruolo?
È un personaggio che ho amato e amo molto. Cosa dire di lei? È un clown, come lo stesso Ugo Fantozzi.

Lei ha lavorato con grandi registi come Luis Buñuel e Federico Fellini. Quali sono i ricordi più forti che le sono rimasti di questi due maestri del cinema?
Il fatto che tu abbia citato proprio questi due registi insieme, secondo me, non è un caso, perché sono i registi del sogno, che hanno raccontato e materializzato al cinema i nostri sogni, o i nostri incubi. Io ho lavorato negli ultimi tre film di Luis Buñuel e mi piace raccontare un aneddoto relativo al primo. È una storia che riguarda, guarda caso, un sogno che ho fatto. Prima di andare a Parigi a girare con lui, avevo acquistato un volume di gouache su di lui, che erano anche un modo per entrare nel suo mondo. Io gli volevo chiedere, durante la lavorazione, se poteva firmarmi questo libro. Ho girato circa un mese con Luis Buñuel, concentrandomi al massimo, per riuscire a dare il meglio di me in quello che mi chiedeva. Poiché sono sempre stata molto timida, avevo questo libro nel mio camerino, ma non sono mai riuscita a trovare il coraggio di farglielo firmare. Questo nonostante lui fosse una persona molto gentile, da tutti veniva chiamato Don Luis, era, a suo modo, un giocherellone, una persona non così difficile da avvicinare. Non credo che un altro dei maestri di quell’epoca, Ingmar Bergman, fosse così comunicativo con gli altri. Però, finito il film, sono rimasta senza la sua firma sul libro. Tornai a casa molto dispiaciuta con me stessa. Succede che, proprio la prima notte in cui ero ritornata, sogno qualcuno che mi dice: «Non farla tanto lunga, dammi questo libro e glielo chiedo io di firmarlo». E così fu. Luis Buñuel firmava con questa frase: «Siamo tutti uomini liberi». Io mi sveglio pensando che questo sogno fosse un segno importante e mi misi in testa che dovevo raccontarglielo. Allora tornai negli studi di ripresa, lui stava ancora girando. Quando mi videro, mi chiesero: «Hai dimenticato qualcosa? Cosa è successo?». Io dico: «No, ho bisogno di parlare con Don Luis». Allora, ho aspettato che facesse una pausa e, con il libro in mano, gli raccontai ogni cosa e della sua dedica. Lui era seduto sul suo seggiolino, mi guarda e mi dice: «Io avrei scritto così? Dovevo essere completamente ubriaco!». Mi ha preso il libro e mi ha scritto: «Siamo tutti uomini cosiddetti liberi, cara Milena».

Il fantasma della libertà (1974)
Doppio sogno con Federico Fellini...
Mi ricordo una cosa che lega Luis Buñuel e Federico Fellini. Io avevo già lavorato con quest’ultimo e mi capitò di chiamarlo e di raccontargli proprio che andavo a Parigi a girare con Luis Buñuel. Lui era molto felice per me, mi disse che, secondo lui, Luis Buñuel era l’unico regista capace di tradurre i sogni nel cinema, mi chiese di salutarglielo e poi quanti anni avesse. Quando arrivai a Parigi, era la prima volta che incontravo Luis Buñuel, mi aveva scelto in base ad altri film che avevo interpretato e che aveva guardato. Quando lo vidi, immediatamente gli porsi i saluti di Federico Fellini e lui mi disse che gli piaceva molto come regista, trovava geniale la scena del defilé dei cardinali, mi parlò dei suoi film, di quello che più lo aveva colpito, di come fosse bravo a trasportare il suo immaginario nel cinema, poi mi chiese di ricambiare i saluti e, prima di congedarsi, mi domandò quanti anni avesse Federico Fellini. Perfetta sintonia a distanza tra i due.
Oltre questi grandi registi con cui ha lavorato, quali sono i suoi colleghi interpreti che più l’hanno impressionata e più le hanno insegnato qualcosa di questo mestiere?
Io ho avuto la fortuna di lavorare con grandi attori, anche con grandi comici. Per cui è una domanda a cui rispondo con difficoltà, perché ognuno poi prende un pezzetto del nostro cuore. Se devo limitarmi a pochi nomi, in teatro ho avuto la fortuna di lavorare con Rina Morelli, che per me è stata una guida, una vera maestra. E poi Paolo Poli, un altro grande punto di riferimento. Tutte le volte mi lego a interpreti che mi hanno arricchito, quando ci ho lavorato insieme.

Paolo Micalizzi, Renato carpentieri, Milena Vukotic, Lorenzo Caravello e Gianluca Castellini sul palco della 73a edizione di Italia Film Fedic