In occasione dell’uscita del suo nuovo docufilm The girl in the fountain di Antongiulio Panizzi, presentato alla 39esima edizione del Film Festival di Torino (qui il sito) è in uscita nelle sale l’1 e 2 dicembre, abbiamo intercettato cuore, corpo e cervello di Monica Bellucci. Parlare con questa attrice, diva ed icona, come lo è stata la Ekberg, a cui è dedicato il film, è davvero arricchente.
È come se la Madonna Solly di Raffaello potesse scendere dal muro ed esprimersi.

Raffaello_Sanzio_(Urbino,28_marzo_1483–Roma,_6_aprile_1520)-Madonna_Solly(1500-1504)Olio_su_tavola_dimensioni_52x38_cm
È come se prendesse la parola, al posto di Guinizzelli, un manuale del dolce stil novo, tale è la sua profonda ricerca verso un’espressione raffinata e “nobile” dei propri pensieri. La Bellucci è un insieme di ironia, di dolcezza, di saggezza, di estrema incandescente bellezza e perfezione, contribuendo ad assecondare il termine greco kalòs kagathòs, crasi di kalòs kai agathòs, che associa bellezza e bontà, cioè bello e buono. In possesso di tutte le virtù, il termine καλός per i greci si riferisce non solo a ciò che è “bello” per il suo aspetto sensibile, ma anche a quella bellezza che è connessa al comportamento morale “buono” (ἀγαθός). E così è nel caso della Bellucci!
Come per Platone, anche per noi, quello della kalokagathia, è un ideale aristocratico che distingue il sapiente dalla massa incolta. Ideale di cui c’è un immenso bisogno: “Chi si dedica a qualche intensa attività intellettuale, bisogna che anche al corpo dia il suo movimento, praticando la ginnastica, mentre chi si dedica con cura a plasmare il corpo, bisogna che fornisca in compenso all’anima i suoi movimenti, ricorrendo alla musica e a tutto ciò che riguarda la filosofia, se vuole essere definito, giustamente e a buon diritto, sia bello sia buono”. La bellezza, nella cultura greca arcaica, è concepita come un valore assoluto, donato quindi dagli dei all’uomo. E qui, scopriamo, anche alle donne!
L’intervista
GSS: Cosa si prova a incarnare una grande attrice, sé stessa fino in fondo, tanto da finire in disgrazia? Come si è preparata per il ruolo? E lei si fa una domanda nel film: “ma io e te ci saremmo piaciute, Anita?” a cui però non risponde, può farlo ora?
MB: Non ho mai incontrato Anita. Solo la sua immagine così potente e forte di cui ci siamo innamorati tutti. La persona non l’ho mai conosciuta e quello che emana questa donna è di sicuro qualcosa di buono. Quando è stata fastidiosa è perché era sincera. Sincera come una bambina che si mette a nudo e così mi è venuta voglia di difenderla, di abbracciarla.
Anita era schiava di un’epoca. Un’epoca, gli anni ’50, che non aveva la protezione maschile, così importante. Questo fa la differenza con oggi. Noi donne attrici ci permettiamo anche di parlare e rimproverare le produzioni quando serve. I registi hanno ancora voglia di fotografarti e guardarti anche se non si è più ventenni. Così noi donne oggi ci amiamo e ci rispettiamo di più. Ed è come se, emanandolo, aiutassimo gli altri a pensarla nello stesso modo. Noi donne oggi ci muoviamo meglio e facciamo molto, anche nel sociale. Per lei non era così. Era più difficile.
All’epoca a me è successo davvero. Ti dicevano: “eh no, tu non puoi diventare madre, perché non saresti più un simbolo di desiderio. Ma come? Io non sono una cosa affissa, un’icona, un’immagine ferma su un muro. Invece oggi ci si può permettere di essere attrici parlanti. Non siamo più donne imbalsamate, intoccabili. Non siamo mica Nefertiti. (ride, ndr). Non ci si deve vergognare perché il tempo passa. Ci sono altre cose; la vita ti toglie tanto, ma ti dà anche tanto.
La locandina

GSS: Nel film si racconta che Anita Ekberg è rimasta prigioniera del suo ruolo e di sé stessa, rinchiusa nella fontana di Trevi che l’ha resa celebre. Anche nel suo caso ci sono stereotipi che l’hanno trattenuta?
Antongiulio Panizzi: dato che sono cambiati i tempi, ora ci sono scelte più libere. Proprio la storia ha questo incastro tra la Ekberg e la fontana che l’ha poi fagocitata, mentre Monica è riuscita a fare altre scelte e a evitare un unico stereotipo imprigionante.
MB: Quando ci permettono di fare delle scelte autentiche è perché vengono proposte. Io mi ritengo fortunata perché il cinema mi ha permesso di scegliere. Per uscire da quest’idea che la bellezza sacrifica la possibilità di esprimersi, devo dire che sono stata fortunata. Il cinema mi ha permesso di uscire, di esprimermi. È dall’esterno che ho avuto questa possibilità. Posso ancora esprimermi, pur non avendo più né vent’anni, né trenta, né quaranta e neanche cinquanta, ahimè. (ride)
GSS: Anche l’ironia le ha evitato di rimanere imprigionata in un ruolo univoco?
MB: Il film è come una masterclass. Presenta il processo creativo di un’attrice che deve interpretare un ruolo. Pur diverse anche fisicamente, lei nordica giunonica, bionda, io mora, italiana ho messo in scena cosa fa l’attrice per diventare qualcun altro. C’è una trasformazione fisica, il coach, il parrucchiere, le lenti, ma poi scatta una comunione intima, d’anima, con il personaggio. Quella è la chiave per cui l’attrice e il personaggio si incontrano.
Nel film avviene solo in una scena brevissima nel sogno. Le due si vedono solo in quell’attimo. Anche se la scena dura un secondo, lì, attrice e personaggio si incontrano davvero. Il film è un piccolo gioiello umile, ma ridiamo luce a questa donna e attrice, a cui la vita ha tolto tanto inclusa la sua luce. Così si è spenta poi anche l’artista. Grazie a donne come te Anita, noi attrici e donne di oggi, abbiamo imparato a difenderci, a esistere.

GSS: Com’è nata l’idea di questo film? È venuta prima la Ekberg o la Bellucci?
AP: Avevamo pensato alla Ekberg e l’attimo dopo a Monica Bellucci, temendo un rifiuto che, per fortuna non c’è stato. Monica ci ha consentito di osservare da vicino l’idiosincrasia di una star, che rappresenta nel mondo un’icona di bellezza. Nel film le loro storie si parlano continuamente, in un dialogo sottile: la Ekberg e la sua vita straordinaria, piena di successi, scandali, amori e delusioni e poi la storia di un’attrice di oggi che si trova a interpretare una diva di un’altra epoca. Monica ha anche voluto scrivere una lettera ad Anita, rendendo più dolce, la sua “dolce vita”. La Ekberg, scomparsa nel 2015, iniziò la sua carriera a Hollywood dove recitò al fianco di John Wayne, Jerry Lewis, Frank Sinatra e nel 1955, prima del suo arrivo a Roma, vinse un Golden Globe come Miglior attrice emergente.
The Girl in the Fountain è un viaggio alla riscoperta di archivi e pellicole preziose, tra le quali figurano Hollywood, Michelangelo Antonioni, sino all’onirico episodio di Boccaccio ’70 diretto da Federico Fellini, in cui la Ekberg è quasi una caricatura di sé stessa. Nella metà degli anni ’50 l’attrice svedese si innamora dell’Italia e di Roma: anche per questo motivo Federico Fellini la scelse per interpretare il personaggio della diva americana ne La dolce vita, ispirato proprio alla sua vita e al suo temperamento.
La pellicola, premiata a Cannes con la Palma d’oro e poi da un Oscar per i Migliori Costumi, entra nella storia del cinema come ritratto perfettamente a fuoco di una città e di un’epoca ben precisa: proprio la scena girata nella Fontana di Trevi ne diventa l’immagine più riconoscibile, imprigionando l’attrice in quel ruolo e regalandole una carriera composta soprattutto da B-Movies e solitudine. La Bellucci, diva contemporanea, si mette alla ricerca di Anita, della sua storia unica ma anche emblematica, per riscattarne la figura stereotipata della “ragazza nella fontana”.
La sinossi del nuovo film documentario recita
“Correva l’anno 1960 quando le curve sinuose di un’attrice dalla bellezza dirompente, Anita Ekberg, sconvolgevano le acque di Fontana di Trevi e il mondo intero. Proprio in quella scena iconica de La dolce vita di Fellini, la storia del cinema e la memoria collettiva ha cristallizzato la giunonica diva svedese. Ma persona e personaggio di un film non sono la stessa cosa e, per una vita, Anita si è battuta per dimostrarlo. The girl in the fountain è il racconto di un’attrice divorata dalla sua stessa icona che con attenzione e delicatezza si mette alla ricerca di quel personaggio, per riscattarne la figura stereotipata della ‘ragazza nella fontana’.”
