Jorge Grau – che tangenzialmente è possibile avvicinare alla Scuola di Barcellona – inizia la sua carriera dedicandosi al teatro, come autore e più tardi come regista, vocazione che nasce in lui quando faceva la maschera al Gran Teatro del Liceo. Collabora a un film didattico realizzato dal cineclub Monterols (dell’OPUS) e si trasferisce a Roma per studiare presso il Centro Sperimentale di Cinematografia.
Esordisce col promettente Noche de verano(1962), racconto di due storie d’amore con esito infelice, che è uno dei due film che tradizionalmente si ascrivono al Nuovo Cinema Spagnolo. La pellicola è ambientata a Barcellona durante la festa popolare della Verbena, e racconta – alla maniera del primo Antonioni – le tensioni emotive di uomini e donne dai sentimenti fragili nel contesto di una festa che finisce per dilatare beffardamente i dolorosi supplizi dell’anima. Il film ha una vivacità insolita di stile e contenuto, ma rimane troppo legato alle piccole vicende che descrive senza farsi metafora più potente della condizione umana; il racconto dei fallimenti esistenziali è però autentico ed ha anche il merito di mostrarci una Spagna in pieno franchismo molto più inquieta, moderna e laica di quanto si possa presumere. Nel 1964 Grau gira El espontáneo, rappresentazione tra bianco e nero e colore dell’universo della tauromachia attraverso gli occhi di un giovane spavaldo che sogna di diventare torero, fino a quando le sue illusioni non si spezzeranno amaramente. In filigrana, l’orgoglio tutto ispanico del regime e l’annuncio della sua caduta.
Negli anni seguenti, dopo la parentesi del quasi sperimentale Acteón(1965), assai distante dalle sue prime opere, Grau si orienta verso il cinema di genere e raggiunge grandissimo successo, a tutt’oggi immutato, con due film horror: Le vergini cavalcano la morte (1973) e Non si deve profanare il sonno dei morti(1974). Il primo film è un’opera cupa e raffinata che getta uno sguardo impietoso e intellettualmente acuto sul mito del vampirismo. Il regista intreccia la figura della Contessa Erzebeth Bathory (magistralmente interpretata da Lucia Bosè), che cerca nell’irrazionale le risposte alla propria angoscia e alla paura di invecchiare, a quella del marito Karl, ossessionato dal vampirismo più per noia intellettuale che per autentico convincimento. Quel che li congiunge in questa aspirazione al soprannaturale è il tema del desiderio morboso declinato fino alla follia. Lo stesso Grau firma il soggetto e la sceneggiatura del film, facendone un’opera d’atmosfera vicina alle tetre sfumature del genere gotico, prodiga di scene di nudo femminile e ritualismo popolaresco e superstizioso. Non manca pure una polemica di natura sociale e una sottile critica al mondo della ricca borghesia, l’impero in terra di tutti quei vampiri che si permettono agi e splendori alle spalle del popolo, speculando su di esso e privandolo di un’esistenza felice e dignitosa. Il secondo film, Non si deve profanare il sonno dei morti (1974), è ancora più interessante.
In Inghilterra, nella regione di Manchester, i tecnici del ministero della sanità sperimentano l’impiego degli ultrasuoni per eliminare i parassiti che danneggiano l’agricoltura. Le onde elettromagnetiche investono la campagna, irradiano il suolo e sgominano gli insetti nocivi, ma producono anche un indesiderabile e spaventoso effetto collaterale, zombificando i morti “di giornata” ed uccidendo (per poi resuscitarli) tutti coloro che hanno un sistema cerebrale particolarmente debole e vulnerabile. Dopo il primo misterioso omicidio, l’ispettore McCormick prende di mira due giovani appena arrivati in città, – George ed Edna, un hippie e una tossicodipendente che hanno occasionalmente fatto il viaggio insieme – sospettandoli quali autori del delitto: una delle vittime, infatti, è il cognato di Edna. McCormik già pieno di pregiudizi contro le nuove generazioni, crede che la ragazza l’abbia ucciso per evitare il ricovero in una clinica per la disintossicazione. George scopre, infine, quanto è realmente accaduto, ma si scontra con il rifiuto del commissario ad allertare le pubbliche autorità. Privo di qualsiasi aiuto, tenta di distruggere la macchina ad ultrasuoni e comincia una disperata caccia contro i mostri.
Il film è una parabola apocalittica che presenta un insolito messianismo postmoderno, nel momento in cui attribuisce l’entropia della catastrofe a un’attività umana in contrasto con il ritmo naturale dell’ecosistema. Ispirato a La notte dei morti viventidi George Romero, il film di Grau è un esempio assai eccentrico di horror ecologico, con accenti di critica all’autoritarismo del regime (si veda il contrasto tra la ribellione giovanile del protagonista e l’atteggiamento del poliziotto fascista e cinico) e un forte disprezzo per i poteri forti e l’ideologia dominante, ritratta nelle vesti dell’anonimo poliziotto liberticida che è l’esatta allegoria del regime franchista. Se la regia alterna momenti di alta suggestione a cadute di stile, l’atmosfera ne risarcisce ampiamente i limiti: la fotografia livida e i paesaggi desertici e oscuramente minacciosi richiamano le paure inconsce dell’uomo trasfigurate a confronto con una natura ostile. Da segnalare gli ottimi effetti artigianali dell’italiano Giannetto De Rossi, partecipi al senso di angoscia del film, con altissimo tasso di mattanza.
L’anno successivo Grau gira l’esecrabile La trastienda, storia di un medico sessualmente attratto dalla sua infermiera. Il film, il cui unico pregio è in certe scene girate nei giorni della festa di San Fermín a Pamplona (e che dunque ne documentano la tradizione), ha un valore storiografico in quanto presenta il primo nudo integrale nella storia del cinema spagnolo. Gli anni seguenti vedranno il regista dirigere film puramente alimentari, con alcuni momenti anche interessanti ma per la maggior parte sciatti e commerciali, con l’eccezione di un’opera che desta interesse – pure se nell’ambito del cinema di genere: Coto de caza(1983). Si tratta di un thriller assai crudo (che pare sostenere la pena di morte, come si evince dalla storia), che, dopo un inizio d’atmosfera lento e concentrico, si volge a un climax di intollerabile violenza esplicita. La rappresentazione è freddamente sadica, in tal modo compensando la povertà della produzione e una cattivissima fotografia. Pure con tutti i suoi difetti, il film è l’ultima cosa davvero originale del talento disordinato di Jorge Grau.
Jorge Grau
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