Frères Ennemis di David Oelhoffen, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è apparentemente un film di genere, che però si svincola dai canoni di quest’ultimo ampliandone i confini e comprendendo in essi elementi ulteriori. Sia il regista che i due noti protagonisti, Matthias Schoenaerts e Reda Kateb, alla cui ottima interpretazione si deve gran parte della riuscita dell’opera, sono stati tutti concordi nell’affermare che, nonostante si tratti di un film poliziesco, in questo progetto possano riconoscersi chiaramente dei forti elementi drammatici, una grande attenzione al sociale e un forte intento di rappresentare l’attuale società francese nelle sue varie etnie e modalità di espressione. Oelhoffen afferma che, a suo avviso, un genere cinematografico sia molto più un contenitore che un contenuto e che il contenuto che vi può rientrare possa, invece, essere molto variegato e complesso. Allo stesso modo, Matthias Schoenaerts si mostra contrario all’incasellare il suo personaggio in una categoria, il criminale, nonostante effettivamente lo sia, in quanto il loro intento è stato proprio quello di sottolineare come l’anima di una persona sia indipendente da ciò che fa nella vita e che non sia questo a identificarla. Cosi, sia Manuel (Matthias Schoenaerts) che Driss (Reda Kateb), oltre ad essere due amici di infanzia che hanno scelto le strade diverse del pusher e del poliziotto, sono entrambi figli, mariti, padri, insomma, uomini. Tutti d’accordo quindi su questo aspetto, e in effetti quello che emerge nel sentirli parlare in conferenza stampa è che ci sia stato un gran lavoro di squadra in questo progetto, tale da mettere tutti i partecipanti a loro agio e da contribuire a un risultato fluido ed efficace.
Particolarmente convincente la performance di Reda Kateb, che riesce a rubare la scena e a mettere in ombra un attore con la presenza scenica di Matthias Schoenaerts e, anche se vi sono personalità maggiormente di spicco per i quali il riconoscimento è più probabile, potrebbe candidarsi alla Coppa Volpi. Insieme ai due più noti, tra gli interpreti figura anche Sofiane, un rapper francese, che esordisce qui come attore, reclutato da Oelhoffen perché risultato convincente ai provini, dopo averlo apprezzato in alcuni cortometraggi.
Una trama abbastanza semplice, lineare, non particolarmente originale, ma godibile, che ricerca la valorizzazione di principi come la lealtà e la fratellanza e che auspica prevalgano su differenze sociali o conflitti di potere. Reda Kateb impersona un poliziotto che non ha la faccia da poliziotto, da buono, che non è bello. “La narcotici era l’unica sezione in cui una faccia come la mia avrebbe avuto un valore”. Le due cose in un certo senso si contraddicono, ma sono volte a evidenziare lo stesso concetto. Il film rappresenta una società auspicabile nella quale si possa categorizzare gli esseri umani il meno possibile, in cui un poliziotto può essere anche interpretato dall’attore tra i due meno bello e prestante, in cui non si debba necessariamente essere cresciuti nei bassifondi per essere utile alla Narcotici. Il produttore Marc Du Pontavice, dopo aver già prodotto Loin des hommes, il precedente film di Oelhoffen, dice di aver deciso di collaborare ancora con lui per i temi affrontati dal film, ma anche perché si tratta di un regista che ama esplorare, ricercare, che lo fa in modo preciso e che lascia grande libertà alle persone con cui lavora. A detta dello stesso regista, l’unico modo di far finanziare un progetto inquadrabile in un genere un po’ datato come quello poliziesco era quello di renderlo originale e attuale. Cosa che ha convinto definitivamente Du Pontavice.
Molto bella la risposta che Oelhoffen ha dato alla giornalista ungherese che gli ha chiesto quale fosse il suo rapporto con la cultura araba, cui ha detto che per lui rappresenta una componente fondamentale della società in cui vive, che considera il Maghreb centro della Francia, dove non esiste una famiglia che non abbia in qualche modo a che fare con qualcuno che abbia origini maghrebino, prima tra tutti la sua. Già in Loin des hommes aveva voluto sottolineare questo aspetto raccontando di un uomo occidentale che insegnava in Algeria, esperienza che è stata anche quella del padre del regista.
Nonostante ci abbia tenuto particolarmente a puntualizzare di non aver copiato dal regista italiano, quando gli è stato chiesto delle sue dichiarazioni precedenti in merito, Oelhoffen ha avuto in qualche modo come riferimento il nostro Gomorra, nel senso che, come Matteo Garrone, avrebbe voluto mettere in scena la realtà locale di un paese con tutte le sue peculiarità e caratteristiche specifiche, ma rendendola universale.
Per quanto riguarda la colonna sonora, inizialmente il film è stato montato in modo che funzionasse senza musica, ma dopo svariate proposte Oelhoffen, che desiderava un suono che fosse in sintonia con gli stati d’animo dei personaggi, è riuscito ad accordarsi con Superpoze, nome d’arte di un artista francese, che ha elaborato una musica appositamente cupa e tormentata, molto più dark rispetto al genere melodico che caratterizza di solito il suo lavoro.